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N.57 febbraio 2025

rubrica

Cinema d’inchiesta, oltre il silenzio che avvolge le notizie

"La prima regola" e "La mia classe", film in classe che raccontano la lotta quotidiana tra norma e disagio nelle periferie educative della società

A prima vista, sembra che attualità e giornalismo abbiano poco a che fare con il cinema, per più di una ragione. In primo luogo, per la disparità dei tempi: mentre le notizie viaggiano veloci e, come si usa dire in gergo giornalistico, invecchiano dopo tre giorni, per realizzare un film ci vogliono settimane, quando non mesi o anni. Poi per la forma di espressione: se le notizie riguardano fatti, eventi che vengono esposti anche in poche righe, il cinema ha bisogno di narrazioni ampie, di storie che abbracciano un congruo spazio per poter risultare avvincenti e interessare chi vi si accosta. 

Eppure, nel mondo dei media, ciascun mezzo – con le sue caratteristiche peculiari – interagisce e si riverbera sempre sugli altri, dando luogo a diverse connessioni. Basti pensare al modo in cui la fotografia e il video, nel tempo, hanno influenzato la trasmissione di notizie e il processo di costruzione della fiducia da parte dei lettori. Già a fine Ottocento, con la prima espansione dell’editoria, i “fait divers”, ossia la cronaca, veniva spesso accompagnata da disegni, tratti da fotografie, per dare una restituzione visiva dell’evento narrato. 

«La Tribuna Illustrata», 5 settembre 1897

Oggi, nell’epoca degli smartphone e dei social, è impensabile trasmettere delle informazioni di attualità senza accompagnarle con una ripresa video, a garanzia che quanto si dice sia realmente (o stia realmente) avvenendo. 

Numerosi tra i film e le serie televisive anche recenti si ispirano a fatti di cronaca. È noto il fatto che La febbre del sabato sera (Saturday Night Fever, di John Badham, 1977), un film divenuto assai popolare per le performance di John Travolta, fosse tratto da una sorta di inchiesta sulla disco music e l’incipiente fenomeno delle discoteche pubblicata il 7 giugno 1976 sul «New York Magazine», Tribal Rites of The New Saturday Night con la firma di Nik Cohn. Ma anche il più recente Bling Ring (2013) di Sofia Coppola, un film che prende il titolo dal nome di una banda di ragazzi i quali, tra il 2008 e il 2009 si erano intrufolati diverse volte nelle case delle star di Los Angeles per rubare oggetti di lusso, diffondendo poi i video delle loro imprese sui social, aveva un’origine giornalistica, con l’articolo The Suspects Wore Louboutins pubblicato su «Vanity Fair» nel 2010 e firmato da Nancy Jo Sales.

Si tratta di notizie certamente edulcorate e adatte ad essere trasformate in racconti, arricchiti da una forte componente visiva e di immaginazione: esse, tuttavia, rivelano il forte legame che sussiste tra le diverse industrie dei media le quali si alimentano a vicenda. Nei grandi conglomerati produttivi americani vi sono reparti preposti ad acquistare precocemente i diritti di articoli adatti ad essere rappresentati, sia perché costano meno rispetto a romanzi o a pièce teatrali, sia per la grandissima quantità di titoli originali di cui necessitano per serie e film. 

Oltre al valore testimoniale delle immagini, c’è un’altra ragione che spiega il rapporto profondo tra cinema, notizie e giornalismo. Il percorso narrativo del film – come ha spiegato Orson Welles nel suo magistrale Quarto potere (Citizen Kane, 1941) – è molto simile a quello di un giornalista che, nel ricostruire un fatto o nel delicato percorso di un’inchiesta, raduna tutti gli indizi a sua disposizione, ne cerca altri, li collega per arrivare a “sciogliere” il mistero di partenza. Così anche il celebre La finestra sul cortile (Rear Window, 1954) di Alfred Hitchcock, altro non è se non la risoluzione di un delitto operata da un fotografo (James Stewart), allenato a guardare e a collegare tutti i particolari, reduplicando il percorso dello spettatore in sala. 

Così la proliferazione di giornalisti che punteggiano tutta la storia del cinema, soprattutto americano, è frutto di una forte attrazione e di un costante monito a chi guarda a mantenere uno sguardo “vigile” sulla realtà. Proprio sulla figura del giornalista nel cinema sono stati pubblicati diversi volumi che hanno monitorato le tipologie di reporter e la loro evoluzione nel tempo, i diversi strumenti di indagine e le cause che li hanno coinvolti. In particolare, il cinema americano ha rivolto la propria attenzione intorno ad alcune aree tematiche: ad esempio gli scandali che riguardano la politica, come in Tutti gli uomini di presidente (All the President’s Men di Alana J. Pakula), nel quale viene ricostruita l’inchiesta del «Washington Post» che svela le manovre operate per la rielezione del presidente Richard Nixon (il cosiddetto scandalo Watergate), oppure il coinvolgimento degli Stati Uniti nei conflitti sullo scacchiere mondiale, ad esempio nella guerra civile cambogiana e nella presa del potere da parte dei khmer rossi negli anni Settanta (Urla del silenzio, di Roland Joffé, 1984). 

Di recente, alcuni film dedicati a grandi cause sociali hanno riportato al centro la funzione (e il potere) della stampa. Si pensi, in merito alla guerra, a Il post (di Steven Spielberg, 2017), con Meryl Streep e Tom Hanks, incentrato sulla pubblicazione di un rapporto riservato relativo alla guerra in Vietnam (i cosiddetti Pentagon Papers) da parte del «New York Times» e de «Il post»; oppure, con riferimento all’insabbiamento dei casi di pedofilia nella chiesa a Il caso Spotlight (Spotlight, di Tom McCarthy, 2015). Ancora impresso nella memoria del pubblico è il recente Anche io (She Said, 2022), diretto da Maria Schrader, basato sulle testimonianze di donne molestate dal potente produttore cinematografico Harvey Weinstein raccolte dalla giornalista del «New York Times” Jodi Kantor e dalla collega Megan Twohey: un’inchiesta di qualche anno prima che ha portato a una presa di coscienza collettiva delle violenze sessuali perpetrare sul posto di lavoro nei confronti delle donne, dando origine al movimento globale “#MeToo”.

 Si tratta di pellicole che costringono chi guarda a prendere coscienza di realtà trascurate, a volte fastidiose: le fasi dell’inchiesta si susseguono in una narrazione sostenuta, che mira in ogni modo a scoperchiare soprusi e ingiustizie, anche in modo apertamente spettacolare. D’altra parte va ricordato che i film, soprattutto hollywoodiani, sono fatti per essere “venduti” a un pubblico potenziale. 

In Italia esiste una solida tradizione del cinema di inchiesta che ha tra i suoi rappresentanti autori come Carlo Lizzani, Francesco Rosi (di cui si ricordano Le mani sulla città, 1963 e Il caso Mattei, 1972), ma anche Damiano Damiani, Marco Tullio Giordana (I cento passi, 2000) o ancora Marco Risi e Giuseppe Ferrara, solo per fare alcuni nomi. Le difficoltà a cui questi film devono far fronte per la loro realizzazione sono sintomi di quanto alcuni temi costituiscano dei problemi per l’opinione pubblica, che per questo sarebbe meglio ignorare. Anche perché la denuncia operata dai film distribuiti in sala cinematografia ha un impatto che supera indubbiamente quello di servizi o fiction televisive, i quali durano pochi giorni, mentre i film godono di un’eco che si diffonde forse più lentamente ma a macchia d’olio, e attraverso narrazioni più incisive. Come – solo per fare un esempio – Il più crudele dei giorni, film sull’ultimo mese di vita di Ilaria Alpi (diretto da Ferdinando Vicentini Orgnani, 2003) che ripercorre le indagini della giornalista su un traffico di armi e rifiuti tossici tra Italia, Balcani e Somalia, destinate a costarle la vita. 

Per quanto sgradevoli o talvolta di parte, i film di inchiesta riportano alla luce la profondità che si cela dietro notizie ascoltate distrattamente o ignorate. 

Per questo meritano attenzione e rispetto: perché costituiscono una voce, critica o quanto meno problematica, che si leva su assordanti silenzi. A quando un film su Giulio Regeni?