parole

N.24 Ottobre 2021

RUBRICA

Da Chaplin alla supercazzola il grammelot aggiusta la lingua

Ecco come il cinema ha manipolato il linguaggio facendo risplendere per contrasto la bellezza autentica delle parole

Le parole sono importanti», tuona Nanni Moretti in Palombella rossa (1989). Perché, come spiega in un libretto prezioso Marco Balzano (Le parole sono importanti, 2019), sono come organismi viventi, dotati di una propria vita e di una storia: riscoprirla significa assumerne il controllo, renderle più simili ai nostri pensieri e rispettarne il valore. Ma, per l’usura cui le sottoponiamo nella pratica quotidiana, ne scopriamo la forza solo di rado: per esempio quando ci mancano (a chi non capita di andare in cerca della parola più adatta, soprattutto nella comunicazione affettiva), oppure quando danno luogo alla polemica e allo scontro (dall’impiego dei femminili per alcune professioni a quello dell’asterisco con valore neutro), o ancora quando le troviamo in contesti incongrui, dove la loro singolarità risalta.
Si tratti delle scritte sui collage futuristi di Ardengo Soffici, dei tubi di neon di Mario Merz che fin dalla fine degli anni ’60 si chiedeva “che fare?”, o ancora delle cancellature dell’arte concettuale di Emilio Isgrò, solo per fare alcuni esempi, il mondo dell’arte figurativa ha offerto in più occasioni degli stimoli potenti per tornare a riflettere sulle parole.

E il cinema? Muto per i primi trent’anni, quando ha guadagnato la voce ha d’un tratto cancellato la pregnanza dei vocaboli, prendendo la strada del teatro filmato e subordinando l’utilizzo della parola alle necessità drammaturgiche e alla verosimiglianza dei personaggi.
Naturalmente con alcune eccezioni. Tra le più celebri quella di Charlie Chaplin il quale si era a lungo rifiutato di far parlare il suo Charlot. La parola poteva snaturare l’essenza del personaggio, che risiedeva proprio nell’universalità del suo linguaggio mimico, affidato al corpo. Ma, come è noto, l’affermazione del sonoro rendeva via via più arcaico il mutismo di Charlot. Così Chaplin in Tempi moderni (1936) “cede” al sonoro, ma lo fa a suo modo: a un certo punto del film Charlot deve cantare ma, per paura di dimenticarsi le parole, le scrive sui finti polsini dell’abito che però, a causa di un movimento brusco, volano via. Dopo aver ritardato l’attacco della canzone… non gli resta che inventarle. Per la prima volta Charlot fa sentire la sua voce: lo fa nel canto, ma si esprime in una strana mescolanza di termini franco-italiani e spagnoli inventati, non ascrivibili a nessuna lingua in particolare.

Je cherche après Titine (conosciuta anche come Titine) è una canzone composta nel 1917 da Léo Daniderff che nella versione di Chaplin diventa un grammelot, ossia un insieme di suoni, parole, onomatopee privi di significato ma articolati come in un discorso che ricorda metriche e accenti di impasti linguistici diversi. Non stupisce che i lessemi evocati nella canzone siano vicini alle lingue romanze, le più musicali, accompagnati da ammiccamenti e gesti che si riferiscono a un orizzonte sentimentale, quasi un appello rivolto a una donna.
Qualche anno dopo il celebre comico ritorna ad utilizzare il grammelot nel film Il grande dittatore (1940), una graffiante parodia del nazismo in cui Chaplin si sdoppia nel ruolo di un barbiere ebreo e di Adenoid Hynkel, dittatore della Tomania.

Il discorso all’esercito della Tomania, volto a esaltarne il potere e ad accendere l’entusiasmo dei militari, imita quelli delle adunate di piazza dove, alla presenza di enormi folle, i dittatori europei dispiegano tutta la retorica bellica e nazionalista. Nei cinque minuti di discorso di Adenoid Hynkel i suoni sono duri e marcatamente simili a quelli del tedesco; le parole stentoree e perentorie, iperarticolate (“supergermanizzate”, come osserva Miriam Voghera in Il senso compiuto delle parole: esempi di grammelot, in «Testi e linguaggi»); le frasi scandite da costrutti brevi e incisivi.
La gestualità supporta il senso delle frasi, ne accompagna il ritmo e la concitazione, attivando la comprensione degli spettatori che – nonostante l’evidente mancanza di senso e le parole inventate – riescono a veicolare dei significati prevedibili. Ma l’assurda irrazionalità del grammelot di Hynkel trova la sua ragione più profonda nel confronto con l’altro discorso presente nel film, quello pronunciato in conclusione dal barbiere che, per uno scambio di persona, si trova provvisoriamente al posto del dittatore. La durata dei due discorsi è quasi analoga; ma in quest’ultimo la macchina da presa sta fissa su di lui, in un primo piano che esclude la folla alla quale l’attore si rivolge con un appello via via più accorato in difesa dell’umanità, della libertà, dell’uguaglianza. Conviene riascoltare, ogni tanto, l’appello di Chaplin. Perché è stupefacente la precocità e il coraggio di questo atto di denuncia: la prima visione americana del film risale al 15 ottobre 1940, ma la sceneggiatura era stata depositata nel 1938. E soprattutto perché – distese sull’orizzonte della storia – le parole ritornano ad essere dense, piene, pesanti.

L’esempio di Chaplin non è isolato. Sia nella versione lepida della Linea di Cavandoli, a cui dà la voce Carlo Bonomi, sia in quella più grossolana di Ugo Tognazzi in Amici miei, ormai entrata nel gergo comune) il potere del grammelot cinematografico è quello di attivare la “manutenzione della lingua”, facendo risplendere – per contrasto – la bellezza delle parole.