sensi
N.46 Gennaio 2024
Il corpo e l’anima: cosa ci insegna il dolore che non passa
Cosa succede quando i senso sono stravolti dall'esperienza del dolore che diventa cronica? Ne parliamo con il dottor Faliva, responsabile del dipartimento di Terapia del dolore e cure palliative dell'Ospedale di Cremona
«Non è un mestiere per cuori di pietra». Nell’ospedale di Cremona il dottor Alessio Faliva – anestesista e terapista del dolore – lavora «un po’ dappertutto», dove serve. Il suo studio però è al primo piano del blocco 9. Arrivando dalla città, l’hospice non si vede: devi girare attorno all’enorme struttura del blocco principale, hai il tempo di lasciarti alle spalle il traffico delle auto, il problema del parcheggio, il rumore vitale che tiene unita la città al suo ospedale. Malattie, nascite, corse d’ambulanza e guarigioni.
«Qui siamo fortunati» assicura il responsabile del Dipartimento: «Qui le cure palliative convivono con la terapia del dolore». Questione di approccio: «Il dolore, soprattutto quello cronico, è un fenomeno complesso, come complessa dev’essere la risposta. Non basta un farmaco. Purtroppo in un sistema sanitario così affaticato è difficile costruire percorsi completi e ordinati nel tempo. E purtroppo – arriva in profondità il medico – nella nostra storia abbiamo sofferto la dicotomia cartesiana che ci induce a trattare anima e corpo come entità separate». Non lo sono biologicamente, perché il dolore assorbe tutta la serotonina che dovrebbe mantenere il fragile equilibrio tra tristezza e felicità; non lo sono nel contatto quotidiano con pazienti che «ogni mattina si svegliano con il dolore addosso e sanno che fino a sera dovranno conviverci».
C’è silenzio tra i corridoi dell’hospice. Infermieri e medici si muovono bianchi e delicati. Le camere dei pazienti ricoverati sono pensate per sembrare stanze di casa: un tavolo con due sedie per pranzare con chi fa visita, un piccolo frigorifero e le tende chiare davanti a finestre che affacciano sul verde. Due uomini di spalle, uno sulla sedia a rotelle, l’altro seduto a fianco, guardano una partita su una tv da 50 pollici.
«”Il dolore – il dottor Faliva cita la definizione della associazione internazionale per lo studio del dolore (Iasp) – è un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole”. In realtà il dolore ha la funzione fisiologica di protezione da un danno; l’elaborazione centrale fa si che l’esperienza del dolore mi sia da insegnamento per imparare ad evitarlo. Per questo le persone che per alterazioni genetiche non avvertono dolore, solitamente muoiono giovani. Il dolore ci avverte».
E questo è il dolore buono. Il dolore utile. «Poi – continua – c’è quello inutile… quando il dolore perde la sua funzione di allarme e diventa cronico, da sintomo diventa malattia. E mi cambia».
Cambia le abitudini, ciò che riesco o non riesco a fare; cambia l’umore, segna il carattere, le relazioni. «La cronicità è un compagno di viaggio. Un viaggio che dura nel tempo ma non sappiamo quanto. Anche questo genera incertezza. E l’uomo ha paura di ciò che non conosce».
Spostandoci tra i piani del blocco 9, dalla sala del tempo libero agli ambulatori del primo piano, notiamo alcuni pannelli con un’esposizione fotografica. La cura in un gesto è un progetto condotto dall’Asst di Cremona con l’Associazione cremonese per la Cura del dolore che qualche anno fa ha chiesto agli operatori dell’hospice di rappresentare con delle fotografie la propria “dimensione estetica del dolore”, le relazioni con il lavoro, con i pazienti, i colleghi, il luogo. Nel volume che racconta il progetto ci sono tre fotografie scattate dal dottor Faliva: l’ultima è un’alba meravigliosa e sfuggente immortalata in autostrada: «È il viaggio che faccio ogni giorno per venire al lavoro – spiega riguardandola – e rappresenta la passione che continuo ad avere per ciò che faccio».
«Non rimane tutto in ospedale, questo lavoro», aveva detto pochi minuti prima rispondendo alle domande dell’intervista. No, decisamente «non è un mestiere per cuori di pietra».
Ci sono scale per misurare il dolore, ma poi è sempre il paziente a raccontarlo. «Servono scale multi-dimensionali, che misurano il dolore considerando l’impatto che ha sulla vita». Il carattere, l’educazione e l’approccio alla disabilità causata dal dolore lo possono amplificare. I sensi stravolti lo colgono; l’anima deve imparare a viverlo. E chiede aiuto.
«La relazione con i nostri pazienti e con le loro famiglie è fondamentale. Il concetto di presa in carico è il mantra delle cure palliative: curare quando non puoi più guarire. Sapere che possono chiamarci, che siamo disponibili (nel limite del possibile) quantomeno ad ascoltarli è la risposta a ciò che il paziente cerca. Soprattutto quando – in certe patologie non oggettivabili, i cui sintomi non si vedono da fuori, ma si sentono – si sentono non compresi, talvolta non creduti, provano vergogna. È nostro compito quello di valorizzare il tempo per entrare in empatia, conoscere il suo contesto, le sue condizioni di vita e la presenza dei caregiver. A volte è più importante parlare con il paziente piuttosto che visitare».
La Legge 38 del 2010 ha riconosciuto questa necessità di prendersi cura del dolore aprendo l’accesso alla terapia del dolore e alle cure palliative a tutti i pazienti: «Una legge pionieristica – commenta il dottor Faliva – che risponde alla necessità di considerare il dolore. Oggi tutti i medici in ospedale sono obbligati a chiedere a un paziente ricoverato se ha dolore. E se c’è dolore bisogna fare qualcosa. Oggi le persone vengono qui perché sono stanche del dolore. Anche per una persona anziana o con diagnosi infauste, oggi si fa un tentativo per alleviare il dolore. Quello che facciamo noi è cercare di far coincidere l’aspettativa con la realtà. L’aspettativa non è fare la maratona a 90 anni, ma magari riuscire ad uscire per andare nell’orto».
La seconda foto con cui il dottor alive aveva scelto di rappresentare il suo lavoro ritrae la zampa di un cane tra le mani della sua padrona: la fiducia.
«Non si guarisce – riflette – si può solo controllare. Da un certo punto di vista chi cura il dolore cronico vive di frustrazioni. Anche se ci sono persone che ringraziano perché “son tornato a vivere” e questa è una boccata d’ossigeno per noi. Perché nel corso degli studi non ci insegnano a gestire le sconfitte. Ma lavorare in équipe, imparare a manifestare le proprie emozioni, esporre le proprie fragilità. È un’ancora di salvezza per l’anima».
Il dolore insegna: addestra l’organismo a proteggersi, spinge a valicare il crinale dei sensi e a guardarsi dentro, instaura piani diversi di relazione con il mondo e con gli altri. E a lei, dottore, che cosa insegna questo contatto quotidiano con il dolore? «Mi ha insegnato a riorganizzare le priorità nella vita. La famiglia, gli amici la responsabilità verso la comunità prima della carriera, la gioia delle piccole cose. È un bagno di umiltà quotidiano». Conoscerlo da vicino, studiarne le cause e le manifestazioni mette al riparo dalla paura? «A volte si ha paura anche di ciò che si conosce. Dato un sintomo o una situazione pensi sempre a qualche caso che ti è capitato di curare. Sai ciò che può essere, o diventare e fa un po’ paura».
La prima foto scelta da Alessio Faliva per raccontare il suo sguardo sul dolore è la distesa di candele in una cappella votiva visitata durante un viaggio nel sud della Spagna: «La speranza». Fiamme come quelle che l’esperienza dei sensi ci insegna ad evitare perché il calore può scottare; luci come quelle che, anche sfiniti dal buio, non smettiamo di cercare se qualcuno ci sta accanto. E si prende cura.