noi
N.40 aprile 2023
«Nella vita c’è un po’ di tutto basta solo coltivarlo insieme»
Cinque coppie di sposi, genitori e figli, ospiti insieme della Fondazione Germani, raccontano l'indissolubile tenerezza dei legami che resistono al tempo, alla malattia, ai bisticci
Cingia de’ Botti è a pochi minuti da Cremona e dal 1898 ospita la casa di riposo Elisabetta Germani, dove da sempre viene fornita cura e assistenza a chi ne ha più bisogno.
Al mio arrivo mi accolgono il personale all’ingresso e Francesca, l’educatrice. Sono tutti molto gentili e mi accompagnano poco più avanti, in un grande salotto, dove ad attendermi ci sono storie che nel tempo si sono prese per mano e non si sono più lasciate.
Luisa e Angelo percorrono lo stesso binario da sessantasette anni. Era il millenovecento sessantuno quando di ritorno dal loro viaggio di nozze a Pietra Ligure, giunti in stazione a Milano cominciarono a discutere su che treno prendere per tornare a casa: quello che parte dopo e arriva prima, o quello che parte prima ma arriva dopo?
«Alla fine ha vinto lei», esclama il marito sorridendo. Uomo dei boschi il signor Angelo, uomo di Po, anzi come dice lui: «Io sul Po ci sono nato». Una vita dedicata al fiume, al lavoro e alla famiglia; una vita passata a costruire mattone dopo mattone, ad annaffiare fiore dopo fiore, a coltivare la terra e la vita intorno a lui. Il signor Angelo ha proprio il nome in testa, perché negli anni è stato custode di ciò che con dedizione e sacrificio è riuscito a creare. Ma per compiere quella magia di creazione bisognava essere in due, condividere, equilibrare.
Tra alti e bassi Luisa e Angelo non hanno mai smesso di essere un Noi che risplende d’amore e hanno trovato un modo per andare d’accordo.
«Mia trop – precisa Angelo – perché a lei non va mai bene niente. Adesso è due giorni che mi fa tribolare per prepararsi all’intervista».
«Lui sopra tutto e tutti – risponde Luisa a tono – Abbiamo sempre bisticciato ma siamo andati avanti e non potrei immaginarmi una vita senza mio marito. Sarebbe dura e sarà dura per chi rimarrà».
Due caratteri differenti, due sorrisi di complicità. E mentre Luisa racconta dei propri viaggi all’estero e del tentativo di frequentare la scuola di infermiera a Milano, Angelo la ascolta, come se lei fosse riuscita a sfamare anche la sua curiosità e a regalargli quella panoramica sul mondo alla quale lui ha rinunciato per non allontanarsi da quella casa costruita con sacrificio. «Mi ha fatto fare la vedova bianca», dice Luisa sorridendo.
La realtà che ho davanti palesa un amore che ha saputo trovare il proprio equilibrio nella complementarità di due estremi.
«Perché nella vita c’è un po’ di tutto – concludono all’unisono – c’è solo da coltivarlo insieme, per quello che ciascuno riesce a fare».
Così, adesso che Luisa ha le gambe che le fanno male ed è stata ricoverata in struttura, Angelo l’ha seguita, poiché anche lui necessita di riguardi e attenzioni e ancora una volta condividono una stanza e si fanno compagnia in questi anni di vita. «Insomma, adesso che facevamo fatica ad aiutarci, abbiamo finalmente qualcuno che si prende cura di Noi».
Luisa e Angelo non sono gli unici ad essersi ritrovati al Germani. Finita la piacevole chiacchierata con loro, incontro la signora Maria e suo figlio Massimo, il primogenito di cinque figli. Anche la loro storia è ricca di dettagli, di dolcezza e di quella tenerezza che può contraddistinguere un rapporto tra madre e figlio.
La signora Maria ha sempre avuto problemi di salute e diversi anni fa è stata ricoverata, passando da Asola, Cremona e Soresina, per poi essere ospitata definitivamente nell’istituto di Cingia de’ Botti. Massimo l’ha raggiunta alla morte di suo padre, nel 2013 e molto teneramente mi spiega che gli hanno consigliato di spostarsi vicino alla mamma così che qualcuno potesse occuparsi di lui.
Mentre mi raccontano degli altri fratelli, mamma Maria si lascia sfuggire i complimenti sull’aspetto fisico di uno dei figli. Massimo la riprende subito: «Cosa vuoi dire, che sono brutto io?».
I due si sorridono e si guardano dritti negli occhi. Mi parlano un po’ del loro passato, dei cambi di casa da Malvasia, a Isola e infine a Ostiano. Massimo mi racconta delle sue gite al lago di Garda, quando frequentava il centro diurno dell’istituto di Pessina e dei gelati che amava gustare durante le sue uscite pomeridiane.
Tra i due emerge un Noi tenero e delicato, sfumato da quel calore soffice di una madre e quella velata timidezza di un figlio. Sul finire entrambi ammettono di essere stati fortunati, per aver avuto reciprocamente una buona mamma e un bravo figlio. Poi si allontanano, verso due reparti diversi, perché: «Va bene vivere insieme, ma ognuno di Noi deve avere i propri spazi».
Anche Virginia vive al Germani insieme al papà. Del ‘48 lei e del maggio 1921 il signor Marino. Originari di Scandolara si spostano a Milano negli anni Sessanta, quando Marino trova lavoro come autista presso un commercialista e la mamma come cuoca privata. Virginia li raggiungerà più tardi, dopo aver terminato il percorso in collegio dalle Canossiane e troverà lavoro come stenodattilografa in una casa di spedizioni a Cusano Milanino dove si sposerà nel 1971.
Parlando con lei percepisco la sua bontà, che trapela dai modi delicati e dal tono gentile con il quale affronta il racconto di una vita non sempre fortunata. Nel 1985 le viene infatti diagnosticata la sclerosi multipla e per questo motivo l’anno successivo decide insieme al marito Franco di tornare a vivere a Scandolara, dove il signor Marino era già tornato dopo essere andato in pensione e aver ripreso l’attività agricola nella cascina di famiglia.
Nel 1988 Virginia e il marito si separano e lei resta con i genitori. Per diversi anni viene aiutata a domicilio, fino a quando nel 2016 sua madre viene ricoverata in struttura al Germani e lei la raggiunge un mese dopo. Nel settembre 2021 anche il signor Marino stabilisce che cento anni di vita sono stati una bella prova di resistenza e tenacia, ma dopo una brutta caduta e un ricovero all’ospedale San Camillo di Cremona, decide di farsi ricoverare insieme alla sua amata figlia.
«Mio papà c’è sempre stato per me, non ricordo gesti eclatanti in particolare, però mi era sempre vicino nelle piccole cose». Dice Virginia con una semplicità che scalda il cuore. Poi si lascia andare al racconto di un viaggio in pullman per andare a trovare una sua collega di lavoro. Un viaggio segnato da peripezie e dai timori di una Virginia che, già affaticata nella deambulazione, si era smarrita lungo la via del ritorno. Ma il suo Noi è protettivo e paziente e la aspetta per più di cinque ore senza mai perdere la fiducia. Il suo Noi è un padre centenario che è riuscito a trasmetterle serenità in una vita che le ha presentato tante situazioni non semplici da affrontare, la stessa serenità che colgo parlando con lei e che mi fa capire quanto in questa vita ognuno di Noi possa vere sempre tanto da imparare.
Il Germani racconta storie che stupiscono, racconti che coinvolgono e che riempiono la struttura di molto di più di ciò che ci si potrebbe aspettare. E la presenza degli educatori e del personale è un valore aggiunto che riesce a fare da ponte tra il passato e il presente, tra il fuori e il dentro, in un continuo scambio di dare e ricevere che si snoda in entrambe le direzioni.
Così, sul finale, Francesca mi presenta anche Maria Rosa e Gianni che si raccontano in sessantatré anni di matrimonio «belli», nei quali sono sempre andati d’accordo. La moglie è stata ricoverata cinque mesi fa, dopo i travagli di questi ultimi sette anni, a seguito di un’emorragia cerebrale che non le ha più permesso di muovere le gambe. Gianni per starle vicino frequenta il centro diurno, così la può vedere e passare del tempo con lei. «Siamo sempre stati tutti insieme, sono andato a vivere con mia suocera e siamo sempre andati d’accordo. Ci tornerei anche domani» Conclude Gianni sorridendo. Poi la guarda e le sfiora dolcemente il viso.
Così come Elio bacia Antonia e mi guarda con occhi azzurri, fissi e penetranti, raccontandomi del suo passato in banca, quando gli hanno sparato durante un assalto ad una porta valori. Lui e la moglie sono ospiti del nucleo Alzheimer, ma lui si avvicina e precisa: «Lei è malata, io non lo sono. Sono qui per stare vicino a lei, sono qui per amore». Poi sospira un istante: «Senza di lei io non ho niente».
Non mi ci vuole molto per rendermi conto che quello che ho trovato qui è un qualcosa di meraviglioso, costruito nel tempo, tessuto d’amore e di perseveranza. Realizzo che dove c’è un Noi ci sono storie che hanno saputo sposarsi anche dove farlo non era affatto scontato e ci sono sentimenti che si raccontano attraverso una semplicità disarmante e una naturalezza che oggi si fatica a trovare.
E credo che durante questa giornata si sia creato un Noi ulteriore, che unisce chi ha raccontato a chi ha raccolto quelle parole e chi ha raccolto quelle parole a chi si soffermerà pensando nel leggerle.
Allora tutto assume un senso, allora è possibile realizzare che un storia che colpisce il cuore, è una storia che lo può plasmare e che permette ad un filo invisibile di collegare tutti in un ricordo, in un esempio o in una speranza, facendoci sentire meno soli e decisamente più Noi.