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N.02 Giugno 2019
Piccola guida pratica per tifosi del baskin
Una maratona di baskin durante le finali nazionali Un cronista sportivo incontra per la prima volta la disciplina "made in Cremona": si siede reporter, si alza "ultrà"
Devo ammetterlo: non avevo mai visto una partita di baskin. Almeno fino a qualche giorno fa, quando Cremona ha ospitato la quarta rassegna nazionale e – mosso da curiosità – ho scelto di fare come i ritardatari con certe serie tv: una maratona di tre gare in poco meno di dieci ore.
Le finali di baskin sono un Mondiale in miniatura: due giorni (sabato e domenica 1-2 giugno), nove squadre, tre gironi, 180 atleti, più allenatori, arbitri e accompagnatori. Passano le prime di ogni raggruppamento e la migliore seconda. Decido che il mio debutto davanti al grande schermo del baskin deve avvenire alla palestra Spettacolo: una forma di coerenza. E pure un buon auspicio. Alle nove del mattino sono appostato sui gradoni con il taccuino in mano.
Il lavoro mi ha portato parecchie volte a vivere questa situazione. Spettatore scrivente a importanti eventi sportivi, dialogante interessato con i campioni. Però il baskin ti spiazza come una finta di Steph Curry. Gli uomini giocano insieme alle donne, i diversamente abili al fianco dei normodotati. Ti aspetti una variante “assistenzialistica” del basket tradizionale, uno sport edulcorato, finisci per capire che l’unico che ha bisogno di assistenza sei tu. Per esempio, in campo ci sono sei persone invece di cinque, sei canestri (due su ciascun vertice della linea di metacampo) al posto di due. I “gialli”, che ho scoperto essere la Lupo Galaxy Pesaro, sfidano i “blu”, la Lasergame Erba. Un gancio cielo dopo pochi secondi mi rassicura.
Ma la verità è che ho bisogno di qualcuno che mi spieghi cosa sta succedendo.
Alle mie spalle siede la squadra che giocherà il match successivo: sono stupendi con la loro aria gioiosa e le magliette color rosa, che a me ricordano tanto il Palermo Calcio. Azzardo: «Ne avete fatta di strada per arrivare fino a Cremona!». Lorenzo, 15 anni, si dilunga sulle ore di autobus fino a Catania, poi l’aereo, poi di nuovo il pullman. Bingo! Ecco a voi i Superabili di Avola, città siciliana del baskin (e del buon vino).
«Vedi – continua il mio insider, che ha giocato a mini-basket e ha appreso l’arte del baskin due anni prima a scuola –, ogni giocatore ha un numero di due cifre sulla maglia. La prima indica il ruolo. Il 5 è normodotato e segue le regole comuni del basket. Il 4 ha buone capacità motorie ma poca dimestichezza con la palla a spicchi. Il 3 ha qualche difficoltà, deve fermare il palleggio. Il 2 e l’1 sono i pivot, quelli che stanno fissi davanti ai canestri laterali, protetti da un’area inespugnabile. Il loro compito è ricevere la palla dai 3, 4 o 5 e spedirla a canestro con un tiro libero».
Mi piace – penso –, ognuno contribuisce al gioco secondo le regole. È un po’ come negli scacchi: chi si sognerebbe di definire l’alfiere “disabile” o, peggio, “sfortunato” perché può muoversi solo in diagonale? Nel frattempo Federico, il 20 dei gialli, insacca canestri a raffica. I compagni superano la difesa blu e, quando non puntano al canestro principale, si rifugiano nel suo regno tangenziale. Lui posiziona la sedia a rotelle sulla linea di tiro con la stessa cura che ha Hamilton con la Mercedes al via di un Gran Premio, e bang! dentro.
Gianpaolo invece, il 13 dei blu, non sembra in giornata. Eppure è meraviglioso da osservare: inarca la schiena, la flette come una fionda pronta a scagliare un macigno. Digrigna i denti e pare Nibali quando scatta in bicicletta sul Mortirolo. La distanza dal canestro è un abisso incolmabile, ma il suo corpo è attraversato dalla tensione, il suo gesto innervato dalla fatica. Mi trovo davanti alla pura essenza dello sport, l’atto che va oltre i limiti ed è nobile indipendentemente dal risultato. «Il baskin non è uno sport banale: è molto difficile – Lorenzo si è ormai calato nella parte –. Il 5 ha tanta responsabilità, deve leggere i movimenti di tutta la squadra. E poi serve sensibilità: gli 1 e 2 sono i più emotivi, tesi come corde di violino. Devi rassicurarli, sussurrargli di non perdere l’equilibrio e di fissare il tabellone».
Al terzo tentativo, Gianpaolo ha la meglio sulla forza di gravità. Ride e tutto il pubblico scatta in piedi battendo le mani.
C’è un pensiero che inorgoglisce il mio animo provinciale: il baskin è nato nella mia città. Questo esempio di inclusione attraverso lo sport, questa orchestra di strumenti diversi dal suono armonico è “made in Cremona”, come i violini Stradivari. Ne voglio sapere di più e vengo accontentato. «Il baskin è nato nella scuola media Virgilio, anno 2001 – racconta Antonio Bodini, l’ideatore di questo sport e il presidente di Baskin onlus –. Siamo partiti con dieci ragazzi e una idea: tutti devono divertirsi. Le regole sono state elaborate tra di noi. L’esperimento ha funzionato, molti hanno voluto proseguire anche al di fuori della scuola e sono nate squadre in tutta la provincia. Prima quattro, ora tredici». Nel frattempo il baskin ha contagiato tutta l’Italia grazie al passaparola. «Il principio di fondo è che non si fa assistenzialismo, non esiste il canestro facile: il punto non è mai un regalo. Ognuno è messo nelle condizioni limite e deve impegnarsi al massimo per il bene della squadra. Nel baskin vince il migliore, proprio come nel basket, non chi ha più fair play. Sogno anche che il baskin possa diventare il modello di una società in cui tutti collaborano per un obiettivo comune secondo le proprie capacità. Nel lavoro, come nella vita di tutti i giorni».
L’afflato ideale mi fa sognare, ma devo tornare alla realtà del parquet.
Pesaro ha battuto Erba e ora tocca ad Avola, di cui mi sento ormai un simpatizzante. Ho individuato anche il mio beniamino, Enrico: per tirare afferra la palla con due mani, stende le braccia in avanti e carica dal basso verso l’alto, accentuando l’effetto molla con le ginocchia. Facevo anch’io così nei miei disastrosi tentativi da cestista, solo che lui – a differenza mia – non sbaglia un colpo.
Sono sincero: non pensavo che il baskin potesse essere come gli sport celebrati, quelli trasmessi in televisione, avere contenuti tecnici così importanti. Ecco perché le parole di Francesca Melchiori suonano nella mia testa come un rimprovero. «Una partita di baskin è molto difficile. Attacco e difesa sono velocissimi. La presenza di un’area in più, quella laterale, da proteggere oppure da attaccare, rende tutto più dinamico. Un tiro libero per me nel basket è complicato tanto quanto quello per un ragazzo diversamente abile nel baskin: se non hai la fiducia della squadra e non sei tranquillo, sbagli».
Francesca è la testimone perfetta: gioca a basket in A2, nella Parking Graf Crema, e ha scritto una tesi di laurea dal titolo “Baskin, lo sport che unisce”, immergendosi in questa fantastica realtà. «All’inizio non sai come approcciarti, pensi: lo lascio tirare. Ma è sbagliato, è l’esatto contrario dello spirito di questo sport. Il baskin diventa per i diversamente abili uno strumento di espressione: non sono il “poverino”, devo mettermi in gioco e fare punti per la mia squadra, altrimenti veniamo sconfitti».
Avola perde in semifinale, ma i suoi tifosi vincono la sfida dei decibel: bene così. In compenso il team Fadigati di Cremona supera il PSG Welcome Bologna all’atto finale del PalaRadi, diventando campione d’Italia e dandomi comunque un motivo per esultare. Perché devo ammetterlo: da oggi tifo baskin.