sbagli
N.43 ottobre 2023
Ritroviamo l’esigenza di sbagliare, senza sentirci sbagliati
In un'epoca che ha fatto dell'autostima la misura di ogni valore sociale ed educativo, le nuove generazioni crescono dentro un senso di inadeguatezza che nasconde il limite e trema di paura di fronte alla responsabilità della scelta
Il racconto di storie ha accompagnato la mia infanzia. Favole e storie si alternavano nelle parole dei miei genitori e non solo. Se le pagine di Collodi, De Amicis, Perrault, Andersen sono mi sono state compagne di nuovi incontri,erano i racconti di storie vissute quelli che maggiormente mi incuriosivano e appassionavano. Mia madre mi raccontava della sua infanzia e giovinezza,del rapporto con i suoi fratelli,delle sue amiche più care , dei suoi divertimenti, degli stili di vita nel periodo del fascismo, dell’ ebbrezza regalatale dalla liberazione. Mio padre mi narrava gli anni della sua infanzia, delle imprese compiute con il suo amato cane in una natura sentita come amica e generatrice di libertà. Parlava poco della sua giovinezza segnata dal trauma della chiamata alle armi ,la partenza per la guerra e la prigionia in un campo inglese in Egitto. Quella ferita nella sua carne non si rimarginò mai tanto che ,ancora in tarda età,quando più facilmente può capitare di avere allucinazioni, mi chiedeva di procurargli un avvocato perché presto gli inglesi l’avrebbero processato.
In ogni loro storia c’era sempre un errore,uno sbaglio ora dovuto alla superficialità ora alla presunzione piuttosto che ad una scarsa avvedutezza che li costringeva ad un cambiamento. Le fantasie di onnipotenza di me bambina venivano ridimensionate dagli occhi dell’altro, specchio in cui si rifletteva l’immagine di un’umanità fragile e nello stesso tempo forte, per nulla onnipotente e contemporaneamente libera, costretta a fare i conti con l’esperienza del finito.
Guardando in quegli specchi acquisivo lentamente quella postura che caratterizzò la mia giovinezza segnata dal desiderio ,condiviso con tanti altri, di un mondo migliore.
Non so se oggi non si raccontino più storie,
ma ho l’impressione che l’unico specchio
in cui un bambino può vedere l’immagine di uomo
sia quello appeso in bagno
Non so se oggi non si raccontino più storie, ma ho l’impressione che l’unico specchio in cui un bambino può vedere l’immagine di uomo sia quello appeso in bagno. Specchiarsi e vedere solo il proprio corpo può convincere di essere “sbagliati”, inadeguati, “fuori posto” rispetto a quell’io ideale generato dalle fantasie infantili. L’uomo è diventato “carcerato del corpo” – come scrive Massimo Recalcati – costretto a trascinare le catene del fitness, del bisturi, del tapis roulant…
Il fine di ogni goccia di sudore è l’autostima. Non saprei dire a partire da quando questa parola sia diventata tanto pervasiva del linguaggio di genitori, insegnanti, educatori; so che ogni volta che la sento provo orrore. Perché fare dell’io e del suo rafforzamento il valore, la misura del valore? Credo di individuarne la causa nel rifiuto della finitezza che si manifesta nell’imperfezione e nel limite.
Eliminare il finito pare essere l’antidoto, anche se solo momentaneo, alla paura di vivere.
Lo specchio intanto continuerà a rimandare un’immagine inadeguata rispetto all’ io ideale. Il bambino che non ha incontrato l’umanità in un altro non troverà alcun limite se non nelle pulsioni del suo corpo e soprattutto diventerà incapace di vivere la responsabilità della scelta. Scegliere è, infatti, afferrare il finito, sporcarsi le mani con la terra di cui l’uomo è fatto, rischiare il fallimento.
La paura del fallimento convince
di non essere mai sufficientemente pronti
per sostenere un esame, per votare,
per prendere la parola in assemblea,
per pensare
La vita perde in movimento e leggerezza, diventa pesante e ci consegna a una perenne fatica. La paura del fallimento convince di non essere mai sufficientemente pronti per sostenere un esame, per votare, per prendere la parola in assemblea, per pensare.
Si pretende di adeguare la realtà, strutturalmente contraddittoria, all’immagine di un sé impeccabile, elaborata in totale assenza di relazioni significative. La perdita di valore dei valori è il dramma dell’umanità del terzo millennio e della sua irresponsabilità.
Mi chiedo se non sia giunto il tempo di indebolire l’io anziché rafforzarlo.
La capacità di saper tramontare, che Nietzsche aveva indicato come la virtù più nobile, esige il recupero della fedeltà alla terra, alla sua intrinseca fragilità, al grido di dolore che ogni giorno da essa si leva e ci interpella. Esige che si sbagli, ma non consente di sentirsi sbagliato.