partenze
N.37 Gennaio 2023
Sta nelle scarpe il segreto di un fotografo
Giulia Barbieri racconta come l'incontro con Angelo Cozzi, maestro del fotoreportage, le abbia insegnato che ogni scatto è un nuovo viaggio
Era mercoledì mattina e la stanza dal parquet scricchiolante dell’università stava per accogliere Angelo Cozzi, uno dei maestri del fotogiornalismo italiano. Avevo letto di lui durante la preparazione dell’esame di fotografia, avevo studiato nel dettaglio le sue immagini, il suo personalissimo punto di vista sui reportage di guerra così vicino a quello di Capa: sempre dentro alla scena, mai un passo indietro. Nell’attesa tamburellavo nervosamente le dita sul foglio ancora immacolato della mia Moleskine, milioni di informazioni, curiosità, interrogativi, rimbalzavano nella mente come palline da pin pong impazzite. A ventiquattro anni stavo per conoscere un personaggio verso il quale nutrivo la stessa reverenza che un giovane giocatore di calcio riserverebbe a Leo Messi. Angelo Cozzi al termine dell’incontro, e ancora non so esattamente per quale ragione, si avvicinò a me con al collo la sua Canon 5D Mark II e mi chiese:
«Qual è il segreto di un fotografo?» «L’occhio?» risposi. “…l’istinto? Il punto di vista?” Lui a quel punto prese a fissare il paio di All Stars sgualcite che indossavo. «Non puoi fare questo lavoro con quelle, dovresti cambiarle prima possibile». E io, che ancora faticavo a comprendere il grado di connessione tra un paio di scarpe e il segreto di un fotografo, annuii senza spiccicare parola.
Oggi mi occupo di persone attraverso l’obbiettivo della mia macchina fotografica, racconto le loro storie. E per farlo sono serviti viaggi, terre di mezzo, nottate in aeroporto ad interrogarsi sul significato più profondo di questo transitare nella vita. È servito entrare ed uscire dalle terapie intensive nel pieno di una pandemia, i dubbi, la ricerca costante del senso del limite, trovarsi faccia a faccia con la morte e continuare comunque a scattare. Con le ginocchia che tremano, il cuore strizzato, l’incapacità assoluta di rimanere verticale di fronte al dolore.
Non si tratta solo di fotografare, è qualcosa che finisce per somigliare ogni volta ad un nuovo viaggio, ad un mestiere che obbliga a (ri)partenze pressoché quotidiane. Incerte e timorose come una barca che naviga nel pieno della tormenta per poi tornare ammaccata ma salva nel porto dopo averla attraversata.
E tutto ciò che sta nel mezzo è così enorme da riuscire a contenere tutto. Fare questo lavoro in prima linea significa convivere con la certezza assoluta che qualunque cosa accada, per quante armature tu possa decidere di indossare, ci saranno pezzetti nemmeno troppo marginali di te che rimarranno dentro a quelle stanze, immagini così dolorose da essere salvate in sottocartelle di altre sottocartelle per non correre il rischio, magari un giorno, per caso, di tornarci sopra. Ci sono partenze che sono fughe, illusioni belle e buone ed altre che si traducono in un nuovo inizio. Dopotutto lo insegnano i viaggiatori più esperti quanto determinante sia “il periodo finestra”, lo spazio di tempo necessario per comprendere realmente chi siamo e a che punto del nostro cammino identitario ci troviamo. Sono serviti otto anni da quell’incontro in università per comprendere che occorre indossare le scarpe giuste per camminare in punta di piedi lungo il bordo delle vite degli altri. Otto anni per capire che una fotografia si costruisce nello stesso identico modo in cui si costruisce la vita: un gradino alla volta, un errore alla volta. Una partenza alla volta.