legami

N.56 gennaio 2025

intro

Tendere la mano quando non è il tuo turno di stare aggrappato

Le mie figlie prendono il controllo della musica in viaggio. L’accordo è che dal tasto nascosto dietro al volante posso sempre skippare i pezzi “quelli che proprio no!”, ma senza uscire dalla playlist. Accanto alla conferma che l’abitudine può rende sopportabile pressoché qualsiasi esperienza sensoriale, mi capita spesso di notare alcuni temi ricorrenti. Legami e relazioni sono la materia prima (dell’umanità, del resto), ma sembra che se ne canti oggi con più naturalezza la fine o la mancanza, piuttosto che la nascita o la cura.

Lacrime o cumuli di terra su storie finite, amori al passato, amicizie tradite, famiglie da cui fuggire, intrecci di ex… In fondo è la realtà, mi dirai. E hai ragione, sai: l’esperienza dolorosa della rottura non ha certo iniziato ad ispirare le forme dell’arte e dell’espressività umana con la scoperta dei trend topic.

Di legami siamo fatti, per questo perderli ci spinge verso il fondo di noi stessi, cercarli quando mancano è inevitabile.

E qui sorge il dubbio: dalla naturalezza scanzonata con cui la precarietà delle relazioni ridisegna il nostro panorama ordinario, a colpi di basi campionate e reel da swippare in 5 secondi. Sorge il dubbio che l’abitudine al consumo solitario (delle informazioni, di un pasto, del tempo libero…) banalizzi il rumore violento dello strappo in una melodia da classifica. Che piace a tutti.

Non è questione di concentrarsi su quanto faccia male, di alimentare lo show della sofferenza, di accarezzare il senso del tragico.

È piuttosto che questa “normalizzazione” della rottura tende a diluire l’urgenza di “legarsi”, di riconoscere e crescere noi stessi nella misura delle nostre relazioni, di specchiarsi nell’altro. Quell’urgenza che ti fa lottare, batterti per prenderti cura dei legami, tenerli saldi quando la corda si tende, studiarne a fondo il senso per distinguere un nodo da un cappio, non accontentarti di godere il momento in attesa che sia il corso degli eventi a scrivere un’altra parola “fine”.

Tendere la mano quando non è il tuo turno di stare aggrappato.

Quell’urgenza che ti fa lottare, batterti per prenderti cura dei legami, tenerli saldi quando la corda si tende, studiarne a fondo il senso per distinguere un nodo da un cappio… Tendere la mano quando non è il tuo turno di stare aggrappato

Salutare. Abbracciare. “Grazie”. “Scusa”. Ai miei tempi (non boomer; millenial anche se per il rotto della cuffia) bastava uno squillo prima dello scatto alla risposta: “Ci sono”; “Ci siamo”; “A domani”.

Oggi un messaggio non costa nulla. Eppure uno tra milioni è pur sempre un bit di contatto. Non sono solo dati: anche in un tempo in cui basta condividere una dozzina di follower per essere “amici”, dove è più facile fidarsi del sorriso di una foto profilo che del vicino di casa, una carezza digitale può far piangere o far ridere per davvero. Tener vivo un legame.

Le storie di questo numero di Riflessi raccontano questa lotta per salvare i legami, difenderli, ricostruirli, condividerli.

Vite legate alle origini e agli amici. Alla famiglia in cui nasci, a quelle che scegli e quelle che ti raccolgono quando il tuo mondo si spezza. Legati ai suoni della terra e ai colori della maglia, da un libro, un ritratto, una fotografia o da un pezzo di corpo donato per salvare la vita uno sconosciuto che non potrà ringraziarti, ma che ti riconoscerà in ogni respiro, in un legame invisibile più forte perfino della morte.