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N.50 maggio 2024

rubrica

“Caro cinema ti scrivo…”. Lettere d’amore dai grandi registi

Il cinema raccontato da chi "fa i film" con le parole fuori dai film. Scritti d'amore firmati da Anotonioni, Bresson, Hitchcock, Truffaut

Sullo schermo si vedono i film. Ma il cinema è qualcosa di più della fuggevole successione di immagini che, dopo essersi impresse nei nostri occhi, lasciano il campo ad altre, e poi altre ancora. Il cinema oltrepassa la misura di ogni singolo film, di ogni attore o autore. Il cinema è l’insieme dei film visti, quelli che compongono la nostra memoria di spettatori. Ed è anche una geografia dell’immaginario; un mezzo per raccontare storie.  

Come “raccontare” allora il cinema e la sua essenza? Le parole per dirlo, questa volta, possono essere cercate fuori dai film, ma nel loro stretto perimetro, tra chi “fa” i film. Nel vastissimo numero di dichiarazioni, testimonianze, aforismi, analisi, attingo alcune tra le più significative “lettere d’amore al cinema”, assumendomi la responsabilità dei prelievi (che sono altrettanti atti d’amore – e di riconoscenza – per alcuni autori che mi sono cari).

La prima lettera è di Michelangelo Antonioni, tratta da un’intervista del 1959. Il regista parla del suo lavoro, così strettamente legato alla vita da confondersi con essa. L’equazione tra regia e vita vissuta determina un rapporto franco e aperto con la realtà, totalmente implicata nella quotidianità del vivere. Di più, per Antonioni tenere fissi gli occhi sulla realtà significa anche orientare il tipo di sguardo, la precisione dell’inquadratura.

Michelangelo Antonioni (foto Wikipedia)

Fare un film non è come scrivere un romanzo. Flaubert diceva che vivere non era il suo mestiere: il suo mestiere era scrivere. Fare un film è invece vivere, almeno per me. La mia storia personale non si interrompe durante le riprese di un film, anzi è allora che diventa più intensa. Questa sincerità, questo essere in un modo o nell’altro autobiografici, questo versare nella botte del film tutto il nostro vino, cos’altro è se non un modo di partecipare alla vita, di aggiungere qualcosa di buono (nelle intenzioni, almeno) al nostro patrimonio personale, della cui ricchezza o povertà gli altri giudicheranno? È evidente che, essendo un film uno spettacolo pubblico, per suo tramite i nostri fatti privati cessano di essere tali per diventare pubblici anch’essi. E nel dopoguerra, in quel periodo così pieno di fatti gravi, così denso di ansie e di paure riguardanti il destino del mondo intero, era impossibile parlare d’altro. Vi sono momenti nei quali ignorare certi fatti sarebbe disonesto per un uomo intelligente, perché l’intelligenza che al momento opportuno dà le dimissioni è una contraddizione in termini. Penso che gli uomini di cinema debbano sempre essere legati, come ispirazione, al loro tempo, non tanto per esprimerlo e interpretarlo nei suoi eventi più crudi e più tragici, quanto per raccoglierne le risonanze dentro di noi, per essere noi registi sinceri e coerenti con noi stessi, onesti e coraggiosi con gli altri. È l’unico modo, mi sembra, di essere vivi [1].

Talvolta al cinema non si scrivono delle lettere, ma degli aforismi. L’importante è che siano acuti, penetranti. Uno degli autori più lucidi e asciutti di tutta la storia del cinema è Robert Bresson: un uomo non disposto a scendere a compromessi, sostenitore di un cinema radicale, essenziale, avverso a forme esibite di recitazione, capace di scavare a fondo nel mistero di un dramma che riguarda la vita. Il suo è amore puro per quello che chiama il “cinematografo”: non una registrazione filmata del teatro, ma un nuovo linguaggio fatto di immagini in movimento e di suoni. Di qui il ruolo attivo dello spettatore; di qualcuno cui spetta il compito di leggere e interpretare le immagini che ha di fronte, facendo appello al suo senso critico e riflessivo.

Robert Bresson (foto Wikipedia)

Non bisogna girare per illustrare una tesi, o per mostrare uomini e donne fermi al loro aspetto esteriore, ma per scoprire la materia di cui sono fatti. Raggiungere quel “cuore del cuore” che non si lascia afferrare né dalla poesia, né dalla filosofia, né dalla drammaturgia [2].

E ancora, a sottolineare il rigore, l’essenzialità del suo tratto:

Né bella fotografia, né belle immagini, ma immagini, fotografia necessarie [3].

Dalle Note sul cinematografo emerge una pedagogia dello spettatore che muove dalla consapevolezza dei mezzi peculiari del cinema.

Porre il pubblico di fronte a esseri e cose, non come lo si pone arbitrariamente secondo le abitudini acquisite (cliché), ma come ti poni tu stesso secondo le tue impressioni e sensazioni imprevedibili. Non decidere mai nulla in anticipo [4].

E poi ancora.

Abituare il pubblico a indovinare il tutto di cui non gli si dà che una parte. Fare indovinare. Suscitare il desiderio [5].

Finché il pubblico non imparerà a capire, a trovare proprio quel tutto che viene sottinteso dalla parte. Ma anche a riconoscere una “scrittura” filmica, come

Racine (a suo figlio Louis): Conosco abbastanza la vostra scrittura senza che siate obbligato a scrivere il vostro nome [6].

Un’ultima, bellissima lettera, è quella che scrive il giovane regista François Truffaut al più celebre e maturo Alfred Hitchcock il 2 giugno 1962 per proporgli una lunga intervista destinata a dar luogo a un libro. Truffaut ha già al suo attivo I quattrocento colpi, Tirate sul pianista e Jules et Jim, ma si rivolge con deferenza al regista inglese.

Caro Signor Hitchcock,
per cominciare faccio appello alla sua memoria. Qualche anno fa facevo il critico cinematografico, e alla fine del 1954 sono venuto, con il mio amico Claude Chabrol, ad intervistarla allo studio Saint-Maurice, dove lei curava la postsincronizzazione di To Catch A Thief. Lei ci aveva chiesto di attenderla al bar dello studio, e fu allora che, emozionati per aver visto quindici volte di seguito un “anello” che mostrava Brigitte Auer e Cary Grand in canotto, siamo caduti – Chabrol e io – nella vasca gelata del cortile dello studio. Molto gentilmente lei ha accettato di rinviare l’intervista, che si è poi tenuta la sera in albergo. […]

Da quando ho cominciato a dirigere film, la mia ammirazione per lei non si è affievolita, al contrario si è accresciuta e modificata. Ho visto cinque o sei volte tutti i suoi film, e oggi li guardo in primo luogo dal punto di vista della costruzione. Molti cineasti hanno l’amore del cinema, ma lei ha l’amore della pellicola ed è di questo che vorrei parlarle.

Vorrei che lei mi concedesse un’intervista registrata, articolata in sette-otto giorni per una trentina di ore di registrazione complessive, con l’obiettivo di ricavarne non una serie di articoli, ma un libro. […] il tutto sarà preceduto da una mia introduzione, lo spirito della quale può essere riassunto come segue: se da un giorno all’altro il cinema dovesse rinunciare a ogni colonna sonora e ridiventare nuovamente un’arte muta, parecchi sarebbero i registi condannati alla disoccupazione. Ma, tra i superstiti, ci sarebbe di sicuro Alfred Hitchcock e tutti comprenderebbero, finalmente, che lui è il migliore regista del mondo […] [7].

Dobbiamo essere grati a Truffaut per averci regalato uno dei libri più intriganti sul cinema che sia mai stato scritto: Il cinema secondo Hitchcock, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1966 e da allora continuamente ristampato (in Italia da Il Saggiatore). Per i più increduli (o appassionati), le parole che i due si sono scambiati possono essere riascoltate e rivissute in un film documentario diretto da Kent Jones nel 2015, Hitchcock/Truffaut (link). L’amore per il cinema non ha fine, e le parole per raccontarlo sono inesauribili.


[1] Il testo, apparso per la prima volta su «Cinema Nuovo», n. 138, marzo-aprile 1959, è pubblicato in Michelangelo Antonioni, Fare un film per me è vivere. Scritti sul cinema, Marsilio, Venezia 1994, pp. 14-15.

[2] Robert Bresson, Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia 2008, p. 45 (ed. originale Notes sur le cinématographe, 1975).

[3] Ibi, p. 85.

[4] Ibi, p. 85.

[5] Ibi, p. 98.

[6] Ibi, p. 109.

[7] François Truffaut, Autoritratto, Einaudi, Torino 1993, p. 111-112 (prima ed. 1988).