cibo
N.15 Novembre 2020
La Malvasia Riserva Reale
Il racconto di Guareschi in cui politica e ideali si mischiano con il gusto delle cose buone
Un vino sublime accompagna di solito i piatti più raffinati, ma capita che finisca perfino su un tavolo di osteria. In questa storia di Giovannino Guareschi, ideali e politica si mischiano al gusto delle cose buone, tentano di sovrastarle, ma poi cedono all’evidenza dei fatti.
Breve prologo necessario.
Giocondo Bessa eredita dal padre la locanda di famiglia, e con essa “il palmo di terra” che produce ogni anno un’uva di qualità eccelsa, tramutata in un vino inimitabile. La produzione è ristretta, non più di quindici bottiglie a raccolto. Malvasia, roba da signorine, per qualcuno. Non per Amilcare, papà di Giocondo, che tempo addietro aveva interpellato un serio e affidabile intenditore. Dubbi spazzati via al primo assaggio: «Questo è un vino da re!». E siccome i giudizi si prendono sul serio, Amilcare, e alla sua morte il figlio Giocondo, inviano ogni anno dodici delle bottiglie prodotte all’unico che merita di bersele: «Se questo è un vino da re che se lo beva il Re!». Il quale ripaga il bel gesto con una lettera da incorniciare, in cui conferma di aver trovato “squisitissimo” il contenuto del regalo.
Gli anni passano, il gesto diventa tradizione. Dodici bottiglie spedite al sovrano e le altre tre trattenute per l’assaggio (una) e la Riserva Reale (due). Su ognuna campeggia l’etichetta “Malvasia del Re – Produzione Amilcare Bessa e figlio”. Con la fine della Guerra, però, la musica cambia. L’avvento della Repubblica e l’esilio della famiglia reale interrompono l’invio del dono. Fine del prologo.
In paese la vecchia storia delle bottiglie del Re è conosciuta. Qualcuno, per canzonare l’oste, si diverte a chiedere a gran voce un bicchiere di “quella famosa Malvasia”, tanto il Re non esiste più e neppure il suo vino. Giocondo incassa, finge indifferenza, ma ne soffre.
Una sera, però, accade l’imprevisto. A un tavolo, mentre fuori piove, giocano l’ultima mano di scopa Peppone e i tre che lo accompagnano: lo Smilzo, il Bigio e il Brusco. Per il resto, la locanda è vuota. A comandare il vino, stavolta, è il sindaco: «Perché non ci portate una bella bottiglia di quella famosa Malvasia?». I compagni lo appoggiano. E scherzano persino sul nome: «Se lo producete ancora, adesso come lo chiamate? Malvasia del Presidente?». E giù a ridere. Giocondo non ci sta. Si fa avanti fino al tavolo e i toni sconfinano nel bisticcio a sfondo politico. Da una parte i rivoluzionari del proletariato, dall’altra un nostalgico della corona. In mezzo, la sorpresa: il vino del Re. Giocondo ha continuato a produrlo. Ne ha la cantina piena. «Vedere per credere!», dice, e porta i suoi avventori fino a mostrare le numerose bottiglie con la solita etichetta.
È a questo punto che entra in scena l’imprevisto. Peppone vuole la prova dei fatti. «Pagheremo quel che c’è da pagare. Portate la Malvasia!». Giocondo non crede alle sue orecchie. Corre in cantina serve una Riserva Reale del 1945, bicchieri di vetro sottile su un vassoio d’ottone scintillante. Due dita di vino ciascuno, lui compreso. Primo goccio, tenuto in bocca e masticato. Poi un secondo, di conferma. Peppone guarda i presenti uno a uno e decreta: «È un vino da re». Finale con sorpresa (non rivelato).
Spesso, le cose eccezionali vincono su ogni idea. Si continuerà pure a tifare per il Re o per la Rivoluzione, ma davanti all’evidenza l’uomo che è uomo si inchinerà sempre. E Giocondo, commosso, quella sera corre in cantina e se ne torna con un’altra Riserva Reale. Fuori continua a piovere a catinelle.