sensi
N.46 Gennaio 2024
Musica sensi(tive): melodie che cantano il futuro
Da Beethoven a Verdi agli Articolo 31: quando la musica coglie idee e mutamenti, diventando colonna sonora della storia
Non chiedete al musicista qualcosa che “squadri da ogni lato l’animo nostro informe” a proposito del suo fare musica, per citare un famoso poeta. Meglio è – e possiamo esserne sicuri – non pretendere dal musico di fare il pensatore o il filosofo, il politico e così via: non sarà mai né incisivo né chiaro. Eppure, può capitare che con le sue “antenne” colga qualcosa che sta a mezz’aria e che riveli idee e mutamenti magari in anticipo sui tempi. Forse si può spiegare con il fatto che, abituato com’è a combinare armonie, quel che sente distonico intorno a lui provi a com-porlo per andare verso un ordine nuovo o anche solo che segnali un disagio da ri-comporre.
Certo, il sociale non è nelle sue corde, preferisce stare sul sentimentale o sul divertimento, sul patetico e sul colore d’ambiente; ma il musicista non vive fuori dal mondo e, senza prendere di petto le situazioni, succede che ogni tanto la sua musica con sopra qualche parola messa a proposito butti là un germe che alla lunga dia il suo frutto e addirittura diventi la colonna sonora di intere generazioni.
Così è stato con quel capolavoro che è il Finale della IX Sinfonia di L. van Beethoven (1824). L’autore integrò la Sinfonia (per primo nella storia) con parole scelte dall’ode Alla gioia di F. Schiller per comunicare all’ascoltatore il contenuto ideologico che a noi sembra acquisito (almeno come tensione ideale) dell’aspirazione alla fratellanza universale tra gli uomini per superare la sofferenza e unirsi nei valori assoluti di Amore e di Fede che avvicinano a Dio. La potenza sta in quella melodia non per nulla “corale”, semplice, cantabile da chiunque, anche da un bambino, nelle armonie basiche, di quelle che si suonano a prima vista, e via dicendo: il risultato è che quella musica, pur suonata in qualsiasi arrangiamento, entra nella testa con un niente e le parole vi si stampano indelebili. Un dettaglio che forse pochi conoscono è che uno studioso ha ravvisato in una variazione della melodia lo stile “turco” dell’epoca. I turchi erano i nemici principali dei viennesi, ma Beethoven ci vuol dire che anche loro possono cantare la stessa melodia ed essere nostri fratelli in nome di una pace universale.
Un altro esempio ce lo mostra il nostro Verdi nazional-popolare quando incastona dentro a un’opera per il resto piuttosto scadente e grossolana (il Nabucco, 1842), un’aria cantata da un coro di ebrei esiliati a Babilonia. Quando, durante il terzo atto, si sentirono le parole “O mia patria sì bella e perduta”, al momento del calare il sipario vi fu un’ovazione delirante: era l’opera che tutti si aspettavano, la canzone che accendeva una speranza, qualcosa che univa tutti coloro che desideravano un’Italia unita. Poiché l’opera raccontava della follia dei tiranni che opprimono le libertà degli individui ecco che Verdi si trovò a identificare un sentimento e una battaglia comune: Israele era l’Italia, l’oppressore era il governo austriaco, “Verdi” diventò l’acronimo per Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia, il pensiero della libertà volò su ali dorate.
Ma anche ai tempi nostri vi sono lanci di idee che i musicisti sentono nell’aria. Oggi la sensibilità e l’attenzione verso l’ambiente è diffusa ed è argomento di dibattiti animati, ma è dal 1970 che una musicista canadese se n’è accorta e probabilmente ha contribuito a suo modo un poco alla volta a farne un luogo di riflessione. La canzone per eccellenza ambientalista è Big Yellow Taxi di Joni Mitchell, in cui si dice che “loro”hanno asfaltato un paradiso e ci hanno messo un parcheggio, “loro” hanno preso gli alberi e li hanno messi in un museo, dove si chiede al contadino di non usare il DDT per salvare uccelli e api, e “Don’t it always seem to go, that you don’t know what you’ve got, till it’s gone” (“Non sai quel che hai fino a che non lo hai perduto”). Probabilmente l’importanza della canzone è cresciuta a sua insaputa, ma è appunto quel “non si sa che cosa” giusto al momento giusto che rende quel fatto artistico uno snodo di non ritorno.
Per venire vicino a noi, verrebbe da frugare dentro ai rapper nostrani per vedere come disegnano il mondo. Ci appaiono spesso come teppistelli tendenziali, che vogliono spaccare piuttosto che mettere mattoni, che raccattano preferibilmente nei sottofondi dell’anima, che sono terrapiattisti quasi incalliti pur di far parlare di sé, e così via. Ma quei gran musicisti degli Articolo 31 e quel geniaccio di Jay Ax parlavano nel 1996 di un mondo tenuto in scacco da un “virus che si prende tramite il sudore e in 90 ore si muore” (come un Covid?) dove “ognuno è chiuso nella propria stanza” e “ormai si parla solo tramite Internet” (si esiste solo se si è nel telefonino ormai?), dove “stiamo senza aria” e “il cielo non si vede più” (è lo smog a zaffate sopra di noi?), dove “un giorno sì e uno no scoppia una bomba” (è la guerra a pezzi?) dove “liberatori picchiano barboni in nome di Gesù”, “chi pensa è in minoranza, ma non ha importanza, non serve più” (2030, nell’album Così com’è).
Sono stati musicisti profeti? Hanno avuto peso nella storia? Hanno condizionato pensieri e parole? Possiamo rispondere con certezza di no, ma sicuramente hanno aiutato l’ascoltatore ad avere una coscienza dei problemi. E non è poco.