parole
N.24 Ottobre 2021
Per filo e per segno: l’arte in rosa di prendersi cura
Una serata al laboratorio "Conversazioni tessili, storie nella cura" in cui madri, mogli e figlie che mettono gli altri al primo posto trovano uno spazio per raccontarsi e condividere fatiche e speranza
Il loro nome cucito su un pezzo di stoffa per non dimenticarlo. Per porre al centro dell’attenzione l’opportunità di riconoscersi. «Di non dimenticare chi si è». Le loro mani sono esperte: sanno accogliere quotidianamente, cuciono ogni giorno legami e sorrisi oltre la sofferenza. Meno spesso forse rattoppano la loro anima, così concentrate come sono a prendersi cura degli altri.
«Partiamo dalle parole. Dalle loro parole. Per evocarne di nuove, dare forma concreta all’emotività. E alla memoria». Loro sono donne, madri, figlie, sorelle. Caregiver. Si prendono cura ogni giorno per amore dei loro familiari. Riempiono vuoti, sbrogliano nodi, appuntano impegni, rincorrono il tempo per veder spuntare sorrisi sulle bocche degli altri. Perché gli altri sono sempre al primo posto.
Daniela, Monica, Sabrina, Tiziana, Francesca: qui ci sono loro, stasera, durante il primo incontro di Conversazioni tessili, storie nella cura, il laboratorio cremonese di autonarrazione per donne caregiver nella disabilità, condotto da Chiara Anselmi di Trame d’Anima, in collaborazione con la cooperativa sociale Ventaglio Blu.
Chiara siede a capotavola «per vedervi tutte in volto». «Questa avventura ha preso vita nei miei laboratori». Trame d’Anima – racconta un biglietto allegato – è ricerca interiore, materiale rigenerato, forma e materia. Ma è soprattutto sorellanza e condivisione. «Essendo nata gemella non ho mai avvertito la percezione di essere sola. La sorellanza fa parte di me. Penso che le donne insieme possano sperimentare fino a trasformare il faticoso in positivo».
Sul tavolo, in una sacca grigia, c’è tutto il necessario. Al centro, alcuni ausili indispensabili: tessuti, aghi, spilli, colla. E un contenitore di parole nuove, che segnano l’inizio di un percorso condiviso. Prima di iniziare a cucire (o, meglio, a ricucire) è utile raccontarsi, che equivale un po’ a svelarsi. «Partiamo da uno spazio condiviso vuoto. Poi lo riempiremo». Di consapevolezza, di energie, di paure, di esperienze. Di vita. «Lo faremo attraverso la materia», la madre in cui tutto si ritrova, la madre che cura. «La materia serve a recuperare la parte del sentire, in equilibrio tra testa e cuore, a manifestare alcune nostre sfaccettature». L’obiettivo è riscoprire, ricucendo pezzi di ciascuna per ritrovare l’interezza.
Chiara ricorre al mito per ritrovare il tempo in cui la dimensione femminile della cura sosteneva la società: «La dea Demetra, simbolo di vita e fecondità, cura e attenzione vive un profondo senso di solitudine e frustrazione per il rapimento della figlia Persefone. Il suo sentimento di dolore è costruttivo, è il desiderio proprio delle donne di diventare ciascuna la madre di se stessa». Lì, sedute una accanto all’altra, Daniela, Monica, Sabrina, Tiziana, Francesca proveranno ad essere, invece, «madre l’una per l’altra».
Insieme vibrano, si mettono in gioco. Si raccontano. Daniela rompe il ghiaccio e subito abbatte il muro della paura, per fare spazio alla verità: «Sono rassegnata. La parola che caratterizza la mia vita è rassegnazione. Mi prendo cura di due figli, uno dei quali con una grave disabilità. Ho sempre cercato di farmi da parte per fare spazio agli altri. Stasera questo spazio è solo per me». Prende tra le mani una parola dal mucchio posizionato sul tavolo. “Magia”. Forse è ciò che le serve per cominciare.
Accanto a lei, siedo io. Mi agito quando devo raccontare che ci faccio lì. Mi pare di rubare tempo ad un momento solo loro. Mi basta poco per capire che sono parte della loro storia, per un brevissimo tratto. Io, che con le storie ci vado a nozze, non posso esimermi. Respiro. Poco dopo le parole mi escono automaticamente: «La mia parola è storie: ne vado matta, mi rendono ricca». Prendo l’ampolla tra le mani. Due dei bigliettini mi sfuggono e le parole prendono il largo. Capita sempre così quando ho tante idee in testa. Per fortuna, poi, con la stessa facilità mi scappa da scrivere e tutto prende forma.
Il confine delimita esperienze, l’immaginazione le scavalca e io avanzo ogni giorno con un tassello di storie (altrui) per volta, sottobraccio. Recupero una delle due parole fuggitive: “flusso”. Non può essere un caso: la penna mi aiuta a correre, almeno con la mente.
Poco dopo mi fermo e ascolto il coraggio di Daniela. «Ho una figlia con disabilità. La parola che mi accompagna quotidianamente è stanchezza». Una di quelle che si infilano nel cuore e sedimentano «sono stanca – ripete – al punto che non riesco più ad occuparmi dell’altro come dovrei. Non ho mai uno spazio solo per me». La sua parola è pace. Ciò di cui ha bisogno.
Monica è la mamma di Sara. «La sua disabilità è impegnativa, ma la parola che mi ha sempre guidata è stata esperienza. Ho sempre voluto sperimentare ciò che mi faceva paura. Ho scoperto una vita impegnativa, ma anche bella, condivisa con persone meravigliose. Mi si è aperto un mondo di bellezza, nonostante la fatica per il quale posso dire anche grazie». La sua chiave per il futuro è “ricevere”.
Tocca a Sabrina. Resta in silenzio per un attimo. «Mi sento fortunata. In questo periodo sto aiutando mia mamma. E di parole non ne ho: sono una persona complicata». Tace subito. Chiara rompe il silenzio: «Pescane due dall’ampolla, allora, così recuperi». Detto, fatto: “dono” e “bambino interiore”.
Poi c’è Federica che stacca “scattando foto”. Gioca con la luce, racconta emozioni e restituisce la bellezza dei dettagli. Scovare aiuta a capire. Capire è necessario per superare la paura. Meglio per accoglierla e raccontarla.
Tiziana lo fa in un batter d’occhio come chi ha imparato a condividere da piccolo. «Sono cresciuta con mia sorella Alessia, che vive con la tetraparesi spastica. Subito ho compreso la forza delle parole dette, ascoltate, condivise. Ho anche capito che, data l’indifferenza, a volte serve urlare per farsi sentire». Non è debolezza, è il desiderio esasperato di sentirsi accolte. «La mia parola è accoglienza. Mi piace pensare a questa esperienza come ad un contenitore in cui tutte ci abbracciamo. Perché siamo donne, prima che sorelle, madri, figlie. Siamo noi, prima di tutto il resto. Sono stanca di organizzare ogni giorno».
I caregiver non sono invisibili, sono persone. «Mi piacerebbe che qualcuno si accorgesse di noi». Dall’ampolla estrae la parola “comunicazione”. Verbale o non verbale, fatta di parole o di silenzi, di urla o timori. Comunque sia, la comunicazione veicola emozioni, «non è solo suono – precisa Chiara – è una parte di noi». Quella che vuole farsi ascoltare. Che non vuole più nascondersi.
Francesca chiude il cerchio. «Sono accanto ai miei genitori: entrambi sordomuti. Sono cresciuta in un mondo silenzioso, pieno della loro preziosa presenza, ma mi manca qualcosa, sento un vuoto. Mi sento fragile». Perché “esposta”, abituata ad ascoltare a fondo, in una realtà piena di superficialità.
Le sacche grigie davanti a ciascuna fremono. Vogliono raccontare l’avventura del primo incontro: «Cucire, ciascuna a modo proprio, il proprio nome». «Io non so cucire» replica Daniela «da che parte si comincia?».
Da quella di chi vuole raccontarsi «anche attraverso i materiali». Dai tessuti colorati, ai bottoni, passando per perline e dettagli non di poco conto. C’è chi si impegna, cuce con ago e filo ad una velocità disarmante, densa di esperienza. Chi, come Daniela, chiede insistentemente la colla a caldo, per poi sperimentare «per la prima volta» l’arte del cucire. Chi, come Federica, alterna scatti a punti perfetti. I nomi restano scolpiti sulla tela «cuciteli, rifiniteli per la prossima settimana». La voce di Chiara scandisce la fine della serata. Riporta l’attenzione nella quotidianità.
Le mani si fermano. Smettono di fissare tessuti sulla tela. Ma il nome di ciascuna resta lì: resta la priorità.