clic
N.20 Aprile 2021
Tutta la vita che passa
prima di scattare
Una fotografa racconta l'attesa del clic, il momento finale di un processo che richiede attenzione e... un pizzico di ritardo
Sono eleganti, entrambi. Lei, con quella borsetta rossa perfettamente intonata ai tacchi e lui avvolto nel suo cappotto nero. Eleganti e discreti. Si guardano, sorridono, talvolta le loro mani si sfiorano. Gesti lenti, quasi impercettibili, in contrasto con tutto ciò che intorno a loro è movimento ed è veloce.
Li osservo da un po’, dall’altro lato della strada, in attesa che il bus numero 12 arrivi e li conduca ad una destinazione che non conosco. In un momento diverso avrei desistito e spinto lo sguardo altrove, presumibilmente cambiato soggetto. E invece da quindici minuti sono qui, con la macchina fotografica al collo in attesa che accada qualcosa.
Poco più avanti due ragazze se ne stanno sedute lungo la Darsena ad aspettare un tramonto che tarda ad arrivare, una coppia discute animatamente dietro la vetrina di un cocktail bar, una giovane donna dal cappello blu e rosso si guarda intorno stranita come se stesse cercando qualcosa. O qualcuno.
Fotografare significa raccontare una storia e la strada è da sempre una meravigliosa e privilegiata quinta spalancata sul mondo.
Aspetto, non so se ne valga la pena eppure scelgo di rischiare, di aspettare. Di fermarmi. Il clic che sto aspettando, in fondo, è molto più di un’azione, di un dito che finisce col pigiare un tasto. L’ho capito negli anni, l’ho capito dopo che per un tempo indefinito, questa domanda – cos’è un clic? – mi è rimbalzata da una parte all’altra del cervello come una pallina da ping pong impazzita.
La risposta è arrivata ma è servito tempo. È servito stare dentro all’attesa, alla frustrazione che porta con sé una serie infinita di tentativi falliti, di rullini bruciati, di fotografie sbagliate (sempre ammesso che davvero esistano immagini giuste e immagini sbagliate). E, nel mentre, quella frase di un insegnante delle superiori “lascia stare, la fotografia non fa per te!” che tuonava dentro con lo stesso effetto di rabbia misto a stupore, che provoca un temporale estivo. Inatteso, si, ma in grado di squarciare la monotonia di giornate assolate che, altrimenti, finirebbero per sembrare tutte uguali.
In fotografia funziona così, non puoi fotografare se non familiarizzi con il concetto dell’attesa, del cambiamento improvviso. Se non impari che il tempo è una questione assolutamente relativa, che fermarsi è necessario perché vedere è fondamentale. Di tutto il processo fotografico, il clic, è “solo” l’atto finale.
Non che sia meno importante del resto, anzi. È la degna conclusione di ciò che è stato prima e che gli occhi sono stati in grado di vedere.
La ragazza dai tacchi rossi si avvicina al ragazzo dal cappotto nero per dargli un bacio mentre dal fondo della via sta arrivando il bus. Il 12. E solo ora capisco che si tratta di un saluto, che a breve le loro strade si separeranno. Si spostano di qualche metro, quel tanto che basta per permettere a me di inquadrare oltre a loro, anche la saracinesca verde sulla quale qualche writer ha dipinto “Born romantic” accompagnato da un fiore, coronamento perfetto della storia che sto per raccontare.
Ci siamo, penso. Tardo solo un attimo, il tempo di regolare di uno stop il diaframma. Ed è proprio quell’attimo di ritardo, quel fattorino vestito di rosso che sbuca all’improvviso e si volta per osservare il bacio tra i due, a cambiare inesorabilmente la mia fotografia. A renderla quella che è
Dopotutto, il clic è come un appuntamento galante al quale occorre farsi trovare pronti. È l’unica traccia che rimane di un gesto, di un movimento, di una scena durata un millesimo di secondo appena, travolta anche meno, e che senza, andrebbe perso perso sempre. A ricordare che le cose belle accadono ovunque… dobbiamo – tutti – allenarci a vederle.