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N.46 Gennaio 2024

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De gustibus! I sapori della tradizione alla prova dell’innovazione (e della globalizzazione) alimentare

Regole del marketing, alimenti "free from...", bistecche coltivate, farine di cavalletta e palati artificiali. Il professor Lucini (Cattolica) ci guida in un viaggio tra nuove tendenze del mercato, sapori della tradizione e cibi del futuro, con la certezza che sono il gusto ed il piacere a guidare le nostre scelte a tavola

Nella società del benessere, la maggior parte di noi (fortunatamente) non ha il problema di come fare a mettere in tavola il pranzo e la cena. Possiamo quindi permetterci di assecondare i nostri gusti quando scegliamo cosa mangiare ed allo stesso modo, ci lasciamo influenzati da diversi e mutevoli driver di acquisto (ossia influenze esterne che ci indirizzano verso un cibo piuttosto che un altro) quando siamo davanti allo scaffale del negozio. Già, perché ormai ciò che mangiamo deriva da prodotti acquistati: quanti di noi hanno il tempo o la possibilità, per esempio, di farsi la pasta in casa o di coltivare le verdure nell’orto o di allevare animali da cortile?  

Nella scelta ciò che più ci piace, che ci dà maggiore soddisfazione, si sa che non è solo il gusto l’unico senso coinvolto: anche l’occhio vuole la sua parte, così come a nessuno sfugge il profumo invitante di una grigliata o di una torta appena sfornata. E che dire della croccantezza del pane tostato al punto giusto o di un frutto fresco?

Ed allora l’industria alimentare ci propone ogni giorno prodotti nuovi, investendo molto nella ricerca e sviluppo di alimenti in grado di soddisfare le nuove tendenze che si rincorrono sul mercato e, di conseguenza, le sempre mutevoli esigenze ed aspettative dei consumatori.

Ma come e perché cambiano i gusti?

Ce lo racconta Luigi Lucini, professore di biochimica presso la facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali dell’Università Cattolica. Lo incontriamo presso il campus Santa Monica a Cremona:

«Le tendenze del gusto a mio parere derivano da aspetti che non sono solo strettamente sensoriali, molto spesso sono indotte dalle influenze del mercato e l’industria naturalmente si muove nella direzione della richiesta. Per questo assistiamo a trend che vanno dal free from (tutti quei prodotti che riportano la dicitura “senza…” un ingrediente o una sostanza, ad esempio, “senza glutine”, “senza conservanti”, “OGM free” …) al vegano,o albiodinamiconell’ambito del vino. Quindi l’industria alimentare investe in ricerca per far sì che il prodotto richiesto dal consumatore soddisfi appieno le sue esigenze».

Quindi, se da un lato vi è la ricerca del gusto, dall’altro si strizza l’occhio alle tendenze che si susseguono e che inducono il consumatore a rivedere le proprie scelte in funzione di un beneficio: spesso, infatti, l’indicazione “senza” un particolare ingrediente viene interpretata come sinonimo di un prodotto sicuramente più salutare per tutti. Ma non è sempre così: facciamo l’esempio degli alimenti privi di lattosio, grande aiuto per gli intolleranti, in realtà di poca utilità per chi invece non ha questa problematica. Lo stesso vale per i prodotti gluten free, che naturalmente per chi soffre di celiachia sono un’innovazione indispensabile, ma che non possono essere definiti un alimento più sano a prescindere.

Si tratta di percezioni spesso indotte dal mercato: forse non tutti sanno che all’inizio del secolo scorso venivano pubblicizzare le “pastine glutinate”, ossia con aggiunta di glutine, per lo svezzamento dei bambini, per farli crescere più forti. E le mamme le acquistavano.

«Resto nell’ambito del gluten free per fare un esempio concreto di come lavoriamo qui nel corso di Food Processing, Innovation and Tradition», prosegue Lucini; «in collaborazione con alcune aziende alimentari cerchiamo soluzioni in grado di dare agli alimenti la stessa piacevolezza e croccantezza, la stessa texture e la tenuta in cottura che altre proteine sostitutive del glutine non sono in grado di garantire. La grande sfida è fare in modo che anche gli alimenti “senza” siano appaganti sul piano sensoriale allo stesso modo di quelli tradizionali».

Del resto, anche se tempi e gusti cambiano, resta una certezza: il consumatore vuole qualcosa che gli piaccia davvero. «I processi di food design hanno come obiettivo che le persone apprezzino l’alimento che gli sto proponendo, che lo reputino buono. Questo è il punto di partenza, c’è poco da fare» è la convinzione del professor Lucini.

Ma quindi per il consumatore viene comunque prima il gusto? Ancora prima del fatto che sia sano o etico?

Gli aspetti di sostenibilità ambientale,
gli aspetti etici, di fair trade,
sono tutti importanti e hanno
un peso rilevante per chi acquista,
ma il primo step è che sia buono e piacevole

«Sì. Senza dubbio: è un fattore imprescindibile. Abbiamo una collega esperta di psicologia dei consumi ed è chiaro che gli aspetti di sostenibilità ambientale, gli aspetti etici, di fair trade, sono tutti importanti ed hanno un peso rilevante per chi acquista, ma il primo step è che sia buono e piacevole. L’industria alimentare sa che deve partire da qui. Poi, il fatto che un alimento abbia un profilo salutistico migliore o l’etichetta più corta dà sicuramente un valore aggiunto, ma i sensi restano quelli che guidano la scelta d’acquisto».

La stessa dinamica psicologica si può ritrovare negli alimenti dedicati a chi sceglie una dieta vegana, ossia priva di qualsiasi tipo di proteina animale, che si basa su motivazioni di salute ma soprattutto etiche. Eppure, questi prodotti in qualche modo imitano quelli a base di carne: ecco così che sono apparse la bresaola vegetale, la bistecca di soia, l’hamburger vegano.

«La maggior parte delle aziende con cui lavoriamo cerca un prodotto a base ovviamente di proteine vegetali, ma che somigli visivamente alla carne e che abbia il gusto della carne». Quindi anche in questo caso sono i sensi a guidare la scelta: l’occhio che vuole vedere la bistecca ed il palato ne vuole ritrovare il sapore. Anche se è vegana.

Poi si potrebbe parlare di veri e propri tormentoni alimentari, nati e spariti nel giro di poco tempo: dal tanto vituperato olio di palma (che, laddove ricavato con un processo di raffinazione corretto, non ha alcun rischio per la salute, come gli altri olii) alle bacche di goji, superfood che non ci avrebbe mai più fatto ammalare ma di cui oggi nessuno parla più; non dimentichiamo poi il miracoloso sale rosa dell’Himalya. E la lista è ancora lunga…

Torniamo all’attualità: che dire della carne sintetica, professor Lucini? O dei prodotti a base di proteine di insetti? Il futuro parla anche di questi nuovi alimenti. Una sfida? Una provocazione? Un’opportunità?

«Per prima cosa, il nome corretto non è carne sintetica, che è un termine che può ingannare, ma “coltivata”: partendo da una piccola parte di tessuto, la vado appunto a moltiplicare. Parlando del profilo ambientale, potrebbe essere migliore rispetto alla carne, ma ne andrebbe valutata anche la sostenibilità economica e sociale sul tessuto produttivo. Io personalmente la assaggerei, ma per quanto invece oggi poi possa essere una soluzione, è un aspetto che non sappiamo ancora. Non ci sono basi scientifiche per dire né sì, né no».

E gli insetti? Ci dobbiamo abituare all’idea di inserirli nella nostra dieta?

«Stiamo lavorando su un progetto della Comunità Europea per l’inclusione della farina di insetti nelle carni: aumentano il tenore proteico della carne con delle fonti di proteine più sostenibili. Ma sul tema “insetti” lascerei la scelta all’ambito personale. Ci sono poi altri aspetti da approfondire, a partire da come vengono allevati, da quale filiera, secondo quali normative e se questi alimenti possano realmente garantire un profilo ambientale migliore».

Insomma, il grillo e la cavalletta possono essere un’alternativa, ma ciascuno dovrebbe restare libero di decidere se assumere proteine da una bistecca alla fiorentina o da un preparato a base di farine di insetti.

«L’occhio vuole vedere la bistecca
ed il palato ne vuole ritrovare il sapore.
Anche se è vegana»

Se questi nuovi scenari alimentari sono ancora in fase esplorativa, non c’è dubbio invece su quello che la nostra filiera agroalimentare sa fare bene e da sempre: «Noi come Italia, abbiamo una tradizione fortissima, millenaria, un’esperienza di sapori, aromi, e sensi nella cucina mediterranea che sono fondamentali. Ma il mercato cambia, è un mercato globalizzato e le sfide sono tante quando ci si confronta con culture e gusti diversi, perché è importante mantenere il legame col territorio e la sua tradizione, sapendo però innovare e soddisfare le esigenze nuove».

E l’intelligenza artificiale? Sarà un giorno in grado di capire ed anticipare i nostri gusti?

«Abbiamo macchine che analizzano il dato chimico e biometrico del prodotto e che sono in grado di dirci se sul piano organolettico risponde a determinate caratteristiche. Ma al netto di un prodotto “buono” sul piano analitico, resta sempre il panel di persone incaricate dell’analisi sensoriale, che assaggiano il prodotto e definiscono se il gusto piace o meno. L’intelligenza artificiale ci viene in aiuto nel momento in cui è in grado di identificare la provenienza di un prodotto, legandola ai tratti distintivi derivati dalla prova sensoriale di assaggio, per tutelare i prodotti tipici ed in supporto alla tracciabilità».

Niente però per ora che possa essere identificato come un “palato artificiale” perché alla fine il piacere di mangiare un cibo o bere una bevanda, il gusto che ne percepiamo, infondo è legato sia ad un dato oggettivo, ma anche a tutta una serie di aspetti personali e psicologici fatti di profumi, sensazioni, voci, esperienze e ricordi che fanno parte della nostra vita. Altrimenti come si spiegherebbe che siamo affezionati ai pranzetti sani ed appetitosi che ci prepara la nonna, ma infondo non sappiamo dire di no ad hamburger e patatine da fast food?