tempo
N.22 Giugno/Luglio 2021
Quando la palla si ferma… il segreto (mentale) del timeout
Calcio, pallacanestro e tennis: tre tecnici raccontano i momenti in cui il gioco sembra prendersi una pausa e la partita è quella con mente e spirito degli atleti che prendono fiato
Troppo lento per coloro che aspettano. Troppo rapido per coloro che temono. Troppo lungo per coloro che soffrono. Troppo breve per coloro che gioiscono. Il tempo domina il vissuto degli sportivi e non c’è verso di dominarlo: l’unica soluzione possibile è scendere a patti con lo scorrere inesorabile delle lancette e cercare piuttosto di gestirlo, di amministrarlo, magari di cavalcarlo se il vento soffia forte a favore.
Però c’è tempo e tempo. C’è quello uniforme, monitorato dall’arbitro e dai giornalisti per le note di gara, che scorre regolare sui monitor luminosi dei palazzetti o degli stadi. E poi c’è quello percepito dal campo, alterato dalla soggettività dei momenti o delle situazioni di punteggio. Pensiamo alle discipline che dividono il match per frazioni o set: calcio, basket, pallavolo, tennis. Tutti sport nei quali la competizione si gioca sul rapporto tra due differenti dimensioni temporali. Da una parte, la dimensione accelerata del gioco: la fase concitata del confronto agonistico, un continuum tecnico ed atletico senza respiro nel corso del quale l’istinto prevale sulla pianificazione, il talento sulle parole e sulle teorie. Dall’altra la dimensione – a battito lento – dell’intervallo o del time out: una sospensione del flusso di gioco che generalmente si svolge radunandosi a bordo campo o ancor meglio chiudendosi nella sacra intimità dello spogliatoio. Pochi minuti contati a disposizione dell’allenatore per rimettere in sesto la squadra, per guardare negli occhi i propri uomini, per comunicare un aggiustamento tattico. Seppur per un breve periodo, durante ogni intervallo le leggi del gioco lasciano posto alle sottili arti del linguaggio e della psicologia (e occhio a non saperle maneggiare: il disastro ‘’gestionale’’ è sempre dietro l’angolo). Una finestra misteriosa, appena fuori dai confini del caos della partita. Tutta da esplorare.
La nostra ‘’esplorazione’’ degli intervalli passa attraverso le testimonianze di tre allenatori appartenenti a mondi differenti dell’universo sportivo cremonese: calcio, basket e tennis. Uomini distanti per esperienze e visioni, eppure accomunati da una convinzione: per cambiare una partita, mentre la clessidra del tempo a disposizione si svuota progressivamente, bisogna girare alla larga dalla complessità tattico-nozionistica e lavorare sulla testa dei giocatori. E per lavorare la testa dei giocatori bisogna saper comunicare con loro. Parlare bene, dunque, con chiarezza, con efficacia, con velocità, ripulendo il linguaggio da tic o vecchi slogan novecenteschi. L’allenatore come psicologo e oratore.
Marco Lucchi Tuelli, allenatore dell’Offanenghese in Eccellenza, già plurivincitore di campionati e coppe sulle panchine del Crema 1908 e della Luisiana di Pandino, racconta: «Forse quei quindici minuti scarsi non sono sufficienti per rovesciare il destino di un campionato. Tuttavia possono bastare per cambiare il volto di una singola partita. Ho sempre creduto che durante i 15’ di riposo la psicologia venisse prima della tattica. Sul piano strategico le partite vanno preparate in settimana, incluso il ‘’piano-B’’; sulla dimensione motivazionale, invece, si può incidere molto anche con un discorso mirato di pochi minuti. Non lo nascondo: parlando ai giocatori durante l’intervallo ho risolto qualche domenica complicata, ma allo stesso tempo ho anche destabilizzato la squadra e in certi casi compromesso delle prestazioni. Parliamo di un aspetto delicatissimo, cruciale nell’economia dell’intero pomeriggio del match day, che nasconde grandi opportunità e grandi rischi. Soprattutto per l’allenatore, che in quel momento si trova solo a dover gestire il tempo e le emozioni a caldo di undici uomini con caratteri diversi. Adattarsi a ciascuno di loro è essenziale, ma bisogna scegliere una linea».
Per Lucchi Tuelli, infatti, anche nella gestione dell’intervallo il bravo allenatore deve avere un metodo: «Solitamente, appena rientrati nello spogliatoio lascio ai giocatori 2 o 3 minuti liberi per recuperare la concentrazione e reintegrare i liquidi. Quindi ascolto: chiedo se ci sono problemi fisici, se in campo stanno percependo sensazioni strane. Solo alla fine prendo la parola per correggere. In generale credo che sia efficace una certa ‘’strategia degli opposti’’. Se la squadra sta affondando, o comunque sta subendo una pressione molto forte, il mister non deve sputare rabbia e mettere ulteriore pressione sulle spalle dei ragazzi. Anzi forse è proprio quello il momento ideale per abbassare i toni, per ricercare un senso di coesione interna, di solidarietà nelle difficoltà. All’opposto, se il parziale è positivo ma la squadra rischia di accomodarsi troppo sul vantaggio o peggio cadere nella presunzione, sarà compito dell’allenatore utilizzare un approccio più duro e richiamare preventivamente tutti all’ordine».
Le “situazioni speciali” del basket
Dal calcio al basket. Cristian Lottici, ex giocatore, ex coach a Verola in C2, nonché primo allenatore della rinata Juvi Cremona Basket nella stagione 2014-2015, ci guida attraverso i segreti del time-out da una prospettiva cestistica: «In origine il time-out nasce per garantire alle squadre una possibilità di recupero fisico, ma con l’evoluzione del basket diventa un’arma tattica utilizzabile per cinque volte nell’arco della partita: due nei primi due quarti e tre nei due successivi. Il time-out è prezioso per spezzare il ritmo degli avversari, per riorganizzare l’assetto in funzione delle ‘’situazioni speciali’’ e decidere a chi affidare l’ultimo tiro decisivo. Non sempre però l’aspetto tattico è protagonista: spesso subentra la dimensione psicologica, e per manipolare le emozioni dei giocatori il coach deve possedere fermezza e fluidità nel linguaggio. Lo ammetto, in passato mi è capitato di gettare il pennarello e la lavagnetta, spostando completamente il discorso dal tattico al motivazionale, perché di questo la squadra aveva bisogno in quello specifico momento. Ricordo una vittoria storica, conquistata ai tempi di Verola, con un tiro vincente allo scadere contro Monticelli Brusati che pareva invincibile e non perdeva una partita da anni: nel time-out avevo impostato un discorso esclusivamente emotivo, lasciando la fase offensiva all’interpretazione dei giocatori. Finì con un trionfo».
La psicologia del tennis
Non esiste sport più psicologico del tennis. Anche a livello individuale, la gestione del tempo e della comunicazione tra un set e l’altro diventa quindi decisiva. «L’intervento diretto dell’allenatore negli intervalli del match non è previsto nei tornei singolari maschili, mentre è autorizzato nel femminile e nei tornei a squadre» spiega Claudio Brizio, storico maestro e allenatore di tennis di San Zeno, nonché figura di riferimento del tennis cremonese. «E questo impone codici diversi: nel primo caso l’allenatore può solo seguire da fuori il proprio atleta, creando un legame empatico a distanza basato sul linguaggio del corpo. Spesso durante le gare la psicologia dei giocatori corre su un crinale sottile, un sorriso può bastare per rassicurare ed aiutare il tennista. Nei contesti competitivi in cui l’allenatore può comunicare, invece, il margine d’incidenza è più elevato. A livello tecnico il lavoro è già stato fatto, di conseguenza tutto si riduce alla psicologia. Ad ogni cambio campo è necessario interpretare il momento. Capire se il tennista è in auto-controllo e quindi meglio affidarsi al silenzio, oppure se intervenire mantenendo sempre alta la sicurezza dell’atleta, senza però oltrepassare il confine della presunzione».
Psicologia, emozioni, parole. Nell’eterno braccio di ferro con il tempo, compresso tra intervalli o time-out di pochi minuti, lo sport non si rivela altro che un formidabile veicolo di sentimenti, ancor prima che di schemi o di concettualizzazioni tattiche. «Nell’intervallo di una finale di Coppa Italia di Promozione, i miei ragazzi della Luisiana erano irrigiditi dalla tensione e decisi di prenderli in contropiede: vi invidio alla morte, dissi, perché mancano 45 minuti e vorrei scendere in campo a lottare in mezzo a voi sotto la pioggia», ricorda con un filo di emozione ancora Lucchi Tuelli. «Così capirono di essere protagonisti di una serata che non avrebbero mai dimenticato, attimi di condivisione che durano per sempre: infatti reagirono giocando il secondo tempo al massimo… e alla fine alzammo la coppa». Sarà anche vero che il tempo è troppo lento per chi soffre e troppo veloce per chi gioisce. Ma come annotava Henry Van Dyke, per chi ama (in questo caso per chi ama il proprio sport) il tempo diventa eternità. Sì, anche il tempo di 15 minuti di un intervallo, stretti sulle panchine di legno di uno spogliatoio un po’ spartano di provincia.