giochi

N.30 Aprile 2022

PSICOLOGIA

Quando lo sport non è più un gioco: fragilità e riscatto nella mente del campione

Valentina Rodini, lo psicologo Stefano Becagli e Andrea Devicenzi spezzano il tabù della "tenuta mentale" degli atleti di alto livello, perché lo spettacolo offerto da talento e prestanza non tagli fuori l'umanità dei suoi protagonisti

mixed martial arts fighter (MMA) stands in corner ring. lost fight. defeat of an opponent

Ogni traguardo ha un prezzo. Anche nello sport: quando il successo arriva per davvero, quando l’obiettivo sul quale è stata costruita una vita di allenamenti e di rinunce si avvicina, la passione diventa lavoro e il lavoro può portare stress. A quel punto, la posta in palio si alza vertiginosamente e il sogno dell’infanzia diventa molto più di un gioco.
Per decenni abbiamo raccontato gli sportivi professionisti come supereroi, robot programmati per un vincere un titolo, un campionato o una medaglia. O peggio ancora, cavie di un particolare settore dell’intrattenimento impermeabile alle fragilità umane della quotidianità. Un’indifferenza spezzata quando i primi campioni globali alle prese con problemi legati alla depressione e alla dimensione mentale hanno trovato la forza per uscire allo scoperto (André Agassi, Gigi Buffon, Andrés Iniesta…), mettendo la delicata gestione della sfera emotiva al centro del discorso. Al punto che oggi il fenomeno sembra ormai inscindibile delle dinamiche dello sport agonistico ai massimi livelli: anche negli ultimi tempi numerosi campioni delle discipline più disparate (dal campione sloveno dell’Atalanta Josip Ilicic alla ginnasta americana Simon Biles) hanno fatto un passo indietro, rinunciando a disputare competizioni alle quali avevano dedicato ogni frammento delle loro esistenze, sferzati da crisi psicologiche e attacchi di panico. Nel frattempo, società e federazioni hanno iniziato ad investire sulla tutela della solidità mentale degli atleti di vertici inserendo negli staff psicologi sportivi e figure specializzate, proprio per prevenire o limitare scenari simili a quelli elencati sopra.
Anche lo sguardo dell’opinione pubblica, seppur con qualche difficoltà, si è evoluto e sensibilizzato. Per capire a che punto siamo, abbiamo intervistato una campionessa olimpionica, uno psicologo dello sport e un performance coach.

Valentina Rodini
campionessa olimpica canottaggio Tokyo 2020

«Quando il disagio si manifesta, se il problema è risolvibile, lo si affronta con lo psicologo o il proprio allenatore. Se, però, lo sport stesso costituisce il problema, il problema va eliminato direttamente»

Valentina Rodini, 27 anni, medaglia d’oro nel canottaggio a Tokyo, racconta l’esperienza legata proprio al percorso di avvicinamento alla prova olimpica che l’ha vista trionfare con la compagna Federica Casarini: «Nella nostra categoria di peso, la Nuova Zelanda aveva dominato le prove di qualifica rifilando addirittura 4 secondi di distacco alle seconde. Una superiorità schiacciante, se pensiamo che a Tokyo saremmo poi arrivate con 6 barche nel giro di un secondo e mezzo! Ma il punto è una altro: a quattro mesi dall’Olimpiade, un’atleta della squadra neozelandese ha scelto di ritirarsi, e ha dichiarato di averlo fatto per salvaguardare la propria integrità mentale. Era in crisi e non è più riuscita a portare a termine un percorso che probabilmente l’avrebbe vista dominare la prova a cinque cerchi. Credo sia una rinuncia significativa, che dovrebbe aprire varie riflessioni doverose. La più importante, a mio avviso: la salute conta più di una medaglia d’oro, e lo dico proprio da vincitrice di quella medaglia d’oro. Lo sport a questi livelli ti chiede tantissimo, a livello fisico e mentale. Ogni giorno devi dimostrare di poter stare al top. Molti atleti possono avvertire disturbi di questo tipo. Quando il disagio si manifesta, però, i percorsi possibili sono due. Prima strada: se il problema è risolvibile, lo si affronta con lo psicologo dello staff della Nazionale, con il proprio allenatore. Penso al mio percorso, alle sedute che sono state preziosissime per me e per Federica nel team azzurro, permettendoci di normalizzare certi problemi. Se, al contrario, lo sport stesso costituisce il problema, il problema va eliminato direttamente. Proprio quello che ha fatto la collega neozelandese: una ragazza che dal mio punto di vista resta comunque una campionessa, un simbolo».
Valentina, comunque, vede una svolta culturale in atto nel mondo dello sport: «Se prima tutto questo era visto semplicemente come un elemento di fragilità, perché la performance era considerata come pura espressione della tecnica o della prestanza fisica, e il discorso era tipo “Okay, sei debole mentalmente? non ti seleziono”, oggi si è finalmente capito che il rendimento di uno sportivo deriva anche da fattori psicologici. Non a caso, diamo il meglio in gara quando nella nostra vita sperimentiamo la condizione perfetta: siamo sereni, motivati, ci alimentiamo in modo equilibrato, attento ma anche gratificante, così facendo le difese immunitarie si alzano e ci sentiamo più energici, e infine arrivano i risultati».

Stefano Becagli
psicologo dello sport

«Gli sportivi professionisti sono esseri umani. Con le loro emozioni e le loro fragilità. E “fragilità” non è sinonimo di debolezza: anzi, se ci fate caso le cose fragili sono anche quelle più preziose»

Lo sguardo non banale di Valentina è condiviso anche dal dottor Stefano Becagli, psicologo dello sport che collabora con realtà di alto livello: Federazione Italiana Giuoco Calcio (è docente nei corsi per allenatori e consulente per il Settore Giovanile Scolastico), Atletico Madrid (per il club spagnolo segue i camp estivi in Italia), atleti professionisti del calcio, del tennis, della scherma, del golf, piloti e automobilisti. «Dobbiamo sempre partire dalla premessa che gli sportivi professionisti, anche quelli apparentemente più forti e invincibili, sono esseri umani. Con le loro emozioni e le loro fragilità. Sottolineerei soprattutto il termine “fragilità”, che non è un sinonimo di debolezza: se ci fate caso le cose fragili sono anche quelle più preziose. Ecco perché, da professionisti della psicologia, abbiamo il dovere di intervenire prima per poter aiutare i giovani sportivi e anche i loro allenatori a gestire la pressione, gli effetti dello stress e dei problemi psicologici sul rendimento sportivo. Sottovalutazione generale? I tempi stanno cambiando. Non vorrei generalizzare, ma anche se esistono ancora forti sacche di resistenza o di rifiuto, in molte realtà si sta progressivamente comprendendo che la dimensione psicologica va allenata esattamente come quella tecnica, tattica e atletica. Soprattutto, avvalendosi di professionisti qualificati e non di amatori improvvisati. Un esempio: pensate ad un centometrista prima dello start di una finale dei 100 metri piani. In quegli attimi, delicatissimi e decisivi, sapersi autoregolare nelle emozioni è importante quanto una buona uscita dai blocchi e può decidere l’esito stesso della gara, tutta compressa in pochi secondi. La psicologia non è un rimedio ad un problema: la psicologia è parte dello sport stesso».
Dalla necessità di un’integrazione totale della psicologia nei programmi di allenamento, Becagli muove il punto di osservazione anche verso la sfera mediatica: «Quando ascolto le interviste a fine gara degli allenatori, soprattutto nel calcio, mi impressiona la frequenza con la quali ricorrono espressioni tipo “siamo calati mentalmente” oppure “nella ripresa eravamo poco lucidi a livello mentale”. Mi chiedo però, in certi frangenti, cosa si faccia davvero, dal punto di vista concreto, nello spogliatoio, per aiutare una squadra o un giocatore in difficoltà psicologica. Altre volte, sono gli stessi media a raccontare i problemi di atleti alle prese con crisi di carattere psicologico come forme di debolezza, quando invece casi come quelli di Simon Biles raccontano una forza spaventosa. È questo che vedo quando penso a questa ragazza, che ha iniziato a fare ginnastica prima ancora di imparare a camminare, e molla tutto una volta arrivata all’apice della propria disciplina».

Andrea Devicenzi
atleta paralimpico e performance coach

«Il grado di pressione emotiva, o di disagio, può variare a seconda delle situazioni più personali o intime degli atleti. Atleti che troppo spesso vengono visti e considerati come macchine»

Andrea Devicenzi, atleta paralimpico e performance coach, aggiunge un altro elemento: «Il grado di pressione emotiva, o di disagio, può variare a seconda delle situazioni più personali o intime degli atleti. Atleti che troppo spesso vengono visti e considerati come macchine. In altri casi è la stessa natura delle discipline ad avere un impatto: esistono sport dove gli errori sono recuperabili e altri no, sport dove l’atleta è responsabile delle proprie prestazioni e altri, come judo o karate, dove sono i giudici a determinare il tuo risultato. Tutto questo produce una vasta gamma di possibilità e di variabili che possono avere una ricaduta sulla stabilità mentale dell’atleta, soprattutto se di alto livello».

Normalizzazione dei problemi attraverso lavoro e terapia, “umanizzazione” dei campioni, sensibilità. Se vorrà davvero completare la sua trasformazione, da sistema arcaico nel quale vige la legge del più forte a sistema più attento alla tutela psicologica dei propri protagonisti, lo sport professionistico dovrà investire sempre maggiori risorse in queste direzioni. Affinché lo show che seguiamo incollati alla tivù, negli stadi, nei palazzetti, non sia una lotta feroce ad eliminazione che taglia fuori i più sensibili o fragili, bensì una competizione più equilibrata e inclusiva nella quale l’aspetto mentale possa essere solo una delle tante variabili in gioco. Un supporto prezioso per l’espressione più pura del talento e della resistenza fisica. E non, come spesso accade nei contesti resi tossici dalla pressione più esasperata, l’esatto contrario.