ridere
N.44 Novembre 2023
La missione di don Marco, sorridere di speranza tra le corsie del dolore
Incontro con don Genzini, cappellano dell'Ospedale di Cremona: «Non possiamo evitare di soffrire o togliere la sofferenza a coloro che amiamo. Però possiamo testimoniare loro una speranza»
Cicely Saunders, la donna medico che inventò le cure palliative nell’Inghilterra del secondo dopo guerra, raccontò che fondamentale nella sua intuizione di creare gli hospice fu – tra gli altri – l’incontro con una infermiera sui generis, suor Teresa. Quest’ultima vagava per le corsie chiacchierando e sorridendo a tutti i malati terminali, incurante dei protocolli dell’epoca che imponevano alle infermiere di essere come fantasmi silenziosi e muti. E questi rispondevano, a volte per qualche giorno miglioravano pure. E questo perché, benché “spacciati” agli occhi del mondo e della scienza, qualcuno li faceva sentire guardati, amati.
«Lo ha richiamato in qualche modo anche padre Angelo Brusco – camilliano – in un corso che ho seguito per poter servire in ospedale: non si cura la malattia, si cura la persona nella sua integralità. E in questo è decisiva la modalità con cui ci si avvicina a un ammalato».
A parlare è don Marco Genzini, 61 anni, cappellano presso l’Ospedale Maggiore di Cremona e volto molto noto in città. «Le persone non sono solo il male che hanno addosso: un tumore, una gamba rotta, un’appendicite… sono molto di più. Hanno delle famiglie che li aspettano a casa, dei figli o dei nipoti che dipendono da loro, dei mariti o delle mogli. Qualcuno magari sperimenta invece la solitudine e a maggior ragione allora bisogna essere attenti. Quello che ho imparato nella Chiesa e nella mia esperienza, è che il malato è molto di più della sua malattia. Mi sono accorto che a volte quello di cui la gente ha bisogno è magari solo un sorriso». Un sorriso, spiega, che a volte è nascosto perché ancora oggi è obbligatorio indossare le mascherine nei reparti.
«Ma si vedono sorridere gli occhi». Se uno sorride sotto la maschera, assicura, lo si vede. «A volte anche una battuta, parlare di cose leggere, ascoltare… fa parte della cura. Chi affronta con una certa serenità le problematiche della malattia ne ha beneficio: non è una cosa scientifica, non sono un medico, ma è quello che vedo. Ho davvero l’impressione che non necessariamente il malato ha bisogno di avere accanto gente triste. Mi spiego: viene naturale addolorarsi vedendo qualcuno che sta male. Ma il sorriso fa di più. Sia chiaro: non si ride della malattia, nessuna presa in giro del dolore. Ma uno sguardo sorridente, questo è quello che provo a fare, è il tentativo di portare la carezza di Dio. Sorridere è dire a chi incontro: sono grato che tu ci sia, tu vali immensamente di più della tua fatica o della tua malattia, tu hai un valore infinito».
«Sia chiaro: non si ride della malattia,
nessuna presa in giro del dolore.
Ma uno sguardo sorridente è il tentativo
di portare la carezza di Dio»
Nei corridoi di persone don Marco ne incontra tante: medici, infermieri, malati, donne in dolce attesa, famigliari dei pazienti, neomamme, operatori. A chi vuole, non nega mai due parole, un cenno di saluto. Il sorriso, quello, c’è sempre per tutti. Chi conosce il sacerdote sa di quanto sia discreto, silenzioso, non impone mai la sua presenza. Ma anche nei momenti più bui offre il suo servizio come cappellano perché nessuno si senta solo.
Il cicalino suona ad ogni ora: c’è l’unzione degli infermi da dare in quella stanza, la Comunione in un’altra, un paziente che chiede di confessarsi, un’anziana che lo intrattiene con ricordi nostalgici e c’è anche il malato della stanza X che ogni giorno lo ferma per raccontargli una barzelletta sui preti.
Si può ridere, sì, anche dentro la malattia. Follie del cristianesimo. Follia di chi sa che c’è qualcuno che tutto questo dolore e la paura della morte li ha già vinti sulla Croce. «Si chiamava Gesù di Nazareth – conclude don Marco – e il dolore lo ha attraversato fino in fondo. Non possiamo evitare di soffrire o togliere la sofferenza a coloro che amiamo. Però possiamo testimoniare loro una speranza. Perché Dio ha vinto la morte, ci ha amati di un amore eterno e totale. E il Suo sorriso, il Suo sguardo buono su di noi, non finisce mai».