eroi

N.18 Febbraio 2021

FICTION

Perché facciamo il tifo per i “cattivi”

Dal Professore della Casa de papel a Walter White... Fenomenologia dei "rough heroes" protagonisti amorali che poi finiscono per piacerci

Illustrazione di Paolo Mazzini

C’era una volta il cattivo. Riconoscibile dai tratti fisiognomici, d’abbigliamento e caratteriali – i capelli neri, le sopracciglia arcuate, la barba ispida e incolta, gli occhi torvi, l’espressione sinistra, l’abito scuro, l’andatura lenta e curva –, il cattivo ha popolato favole, ma anche pièce teatrali, racconti popolari, testi letterari, fumetti e film. Da Lord Voldermort, potente e spietato mago antagonista di Harry Potter alla Signorina Trinciabue (Miss Agatha Trunchbull, nella versione letteraria di Roald Dahl); dal perfido antropofago Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti al Jack Torrence di Shining o Norman Bates di Psyco, si può enumerare un’infinita galleria di orchi, streghe, personaggi malvagi, crudeli, sadici, pervertiti che si sono impressi nella memoria degli spettatori come personificazioni di un male tanto più sgradevole in quanto gratuito.

Pur suscitando paura, ribrezzo, ostilità e avversione nel pubblico, i villains assolvono a una funzione importante, come ricorda Peter Brooks nel suo famoso saggio L’immaginazione melodrammatica: quella di scatenare duelli, battaglie, inseguimenti, ecc.; in una parola di muovere l’azione. I cattivi portano al racconto un dinamismo che consente all’eroe positivo – coraggioso e indomito – di agire e manifestarsi.

Di recente, però, si è assistito a un cambiamento profondo: il male non veste più i panni di personaggi sgradevoli ma quelli di figure apparentemente normali, simili a noi e finanche ordinarie, per i quali è possibile provare empatia. Si pensi al Professore de La casa di carta, interpretato da Álvaro Morte, timido e riservato organizzatore di una rapina “alla Robin Hood”, almeno nelle intenzioni iniziali, oppure ai protagonisti di Diavoli, una serie ambientata nel mondo dell’alta finanza, in cui agiscono personaggi tanto spietati quanto desiderabili, sempre prossimi e pienamente umanizzati, o ancora al professor Walter White di Breaking Bed, che sintetizza metanfetamine e per il quale ci ritroviamo a tifare.

Spodestando i vecchi eroi postivi, questi nuovi personaggi assurgono al rango di protagonisti senza possedere le dovute qualità morali. Sfaccettati e intriganti, conquistano il centro dell’attenzione, grazie al fatto che hanno di solito una personalità complessa, più sofferta e meno lineare di quella degli eroi. Ma, anche se “ripuliti”, rimangono capaci di azioni malvagie, compiute deliberatamente e in dispregio delle norme morali. Per loro gli studiosi di media hanno coniato una nuova definizione, quella di rough heroes, eroi duri, rudi e negativi, moralmente corrotti e pieni di vistosi difetti, ma insieme capaci di presentare anche un volto eroico, che ne fa dei protagonisti da apprezzare e ammirare .

La figura monolitica
dell’eroe tutto proteso
verso un oggetto di valore,
lo ha reso stucchevole

Come difendersi, dunque, dal dilagante straripare del male e dalla sua possibile banalizzazione, per non rimanerne invischiati? Si può spegnere lo schermo: una soluzione radicale che però non attrezza lo spettatore a gestire la violenza che si presenta quotidianamente sotto varie forme nella realtà. Più produttivo, a mio parere, è provare a capire ciò su cui riflettono le discipline della comunicazione.

Nel porre al centro l’analisi della struttura dei racconti, la narratologia ha da tempo identificato come schema ricorrente il percorso dell’eroe verso un obiettivo da raggiungere. La figura monolitica dell’eroe classico, tutto proteso verso un oggetto di valore, lo ha reso a lungo andare stucchevole; i racconti hanno cominciato quindi a sostituirlo con figure più contrastate, attanagliate da dubbi e incertezze, fino a spostare il baricentro sugli antieroi, privi delle competenze e della volontà eccezionale dei vecchi modelli. Antieroi incapaci, sovversivi, o ancora riluttanti, inefficaci, sono scesi da piedistalli di irraggiungibilità, e si pongono oggi in una posizione assai vicina all’esperienza dello spettatore.

Gli studi cognitivi spiegano i processi con cui chi guarda un film entra in contatto con il personaggio, a partire dal “riconoscimento” dell’aspetto, del ruolo, delle sue funzioni, per giungere all’”allineamento” – con il suo modo di pensare, che deriva dall’insieme delle informazioni che su di esso possiede –, fino a nutrire una forma di “lealtà”, di fedeltà al personaggio stesso. Ciò avviene anche quando il protagonista è un rough hero: «Un protagonista sempre sulla scena e trasparente, anche se cattivo, ci rende partecipi delle sue ragioni, facilitandone la comprensione; d’altra parte, la perversione dell’eroe è in genere presentata come relativamente crudele; in sostanza, il cattivo viene spesso umanizzato, attraverso la sua opposizione a qualcuno più cattivo di lui» . Dunque è fisiologico che possiamo fare il tifo per personaggi mediocri o negativi, purché questi non “passino il segno” dimostrando una ferocia irrefrenabile: in tal caso li abbandoniamo, perdendo la fedeltà costruita dai racconti, perché il nostro sistema di valori ci porta a dissociarci, imponendoci un distacco.

Anche i cultural studies, che si occupano delle rappresentazioni, invitano a porre attenzione ai gruppi sociali che conquistano una nuova visibilità e al modo con cui la ottengono, chiedendo allo spettatore di operare un confronto con il contesto sociale in cui si producono i racconti. I cattivi sullo schermo sono il riflesso di una violenza e una malvagità che – non più occultata – affolla anche le cronache, dai notiziari ai programmi di infotainment fino ai dibattiti.

Con questi filtri (di pensiero) possiamo tornare ad accendere lo schermo, immunizzati da possibili effetti di assuefazione. Questi personaggi ci interessano perché hanno a che fare con noi, con il mondo che ci circonda, con le scelte quotidiane che ci tocca affrontare, con la nostra stessa mediocrità. Quando le storie sono (drammaticamente) più simili alla realtà, essi ci attrezzano a riconoscere il male, riflettendo sui meccanismi personali e sociali che lo generano. In ogni caso, grazie a confezioni elaborate e ammiccanti, ci offrono un orizzonte finzionale, e quindi protetto, per i racconti e i problemi che attraversano il tempo presente, e forse anche il motivo per “non fare come loro”, avendo visto in quali guai potremmo andare a cacciarci.