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N.38 Febbraio 2023

RUBRICA

Bellissime menti ed eroi in viaggio. L’equazione da Oscar dei “poveri geni”

Non è affatto semplice rappresentare cifre, equazioni e formule matematiche sullo schermo, e tanto meno appare facile spiegare teoremi e procedimenti che richiedono complesse dimostrazioni in una manciata di secondi. Occorre un pretesto che sia in grado di creare empatia con gli spettatori, portandoli ad appassionarsi anche all’algido e razionale mondo dei numeri.

John Nash: Dinamiche dominanti (dal film “A Beautiful Mind” di Ron Howard) / fonte: Youtube

Considerato freddo e poco capace di appassionare le persone (tranne alcune particolarmente predisposte), il mondo dei numeri sembra intrattenere rapporti molto scarsi e sporadici con il cinema. D’altra parte non è affatto semplice rappresentare cifre, equazioni e formule matematiche sullo schermo, e tanto meno appare facile spiegare teoremi e procedimenti che richiedono complesse dimostrazioni in una manciata di secondi. Occorre un pretesto che sia in grado di creare empatia con gli spettatori, portandoli ad appassionarsi anche all’algido e razionale mondo dei numeri.
Tra le diverse risposte elaborate dai media – ma anche dalla letteratura – a questo problema, il racconto biografico appare la modalità utilizzata più spesso, e la più convincente. Legando a un personaggio una scoperta matematico-scientifica o una dimostrazione, questa può restare maggiormente impressa nella memoria di chi apprende. Lo sanno bene i docenti di matematica che fanno ricorso a brani di film e serie televisive in supporto alle loro spiegazioni.
Una pellicola molto famosa, a questo riguardo, è A Beautiful Mind (di Ron Howard, 2001), premiata con quattro premi Oscar, dedicata alla vita del matematico ed economista John Nash. La rappresentazione dei numeri e della matematica ritorna a più riprese nel film, con inquadrature del protagonista che scrive compulsivamente formule sui vetri o su lavagne, oppure in forma di racconto. Ciò accade ad esempio con la teoria dei giochi – le cui applicazioni hanno meritato a Nash il Premio Nobel nel 1994 –: in una sequenza molto nota, il protagonista illustra un principio di razionalità collettiva facendo riferimento alle probabilità del gruppo dei valorosi studenti di Princeton di conquistare delle ragazze.

Se lo vedi, lo capisci meglio! Questo principio soggiace anche alla celebre serie Numb3rs, prodotta dalla CBS negli anni 2005-2011, in cui un agente dell’FBI di Los Angeles si fa aiutare dal fratello, genio della matematica, a risolvere i casi più disparati. Il principio della serie – che ha meritato riconoscimenti importanti, compreso quello per la divulgazione pubblica della scienza – è enunciato nella sigla delle prime stagioni: «Tutti noi ogni giorno usiamo la matematica: per prevedere il tempo, per dire l’ora, per contare il denaro. Usiamo la matematica anche per analizzare i crimini, comprendere gli schemi, prevedere i comportamenti. Usando i numeri, possiamo svelare i più grandi misteri della vita!».

Ma il caso del film di Ron Howard è particolarmente interessante perché è divenuto nel tempo il capostipite di una serie di altri film che adottano uno schema di racconto simile. Il vettore narrativo è quello del “viaggio dell’eroe”, tratteggiato in un celeberrimo manuale “ad uso di scrittori di narrativa e di cinema” da Christopher Vogler, e utilizzato da decenni come prontuario dagli “script doctors” americani. L’eroe è ovviamente il protagonista il quale deve raggiungere, nel corso del film, un obiettivo. Ma il suo è un percorso a ostacoli, funestato da prove sempre più sproporzionate rispetto alle sue forze, che lo portano a un passo dalla sconfitta. E tuttavia, grazie anche ad aiutanti o alle sue qualità eccezionali, saprà ergersi vittorioso sugli eventi, e conseguire il premio auspicato.

Nel biopic (come è comunemente chiamato il film biografico) questo percorso si sviluppa lungo un arco temporale significativo e si incentra tutto sulle qualità del protagonista, di cui si lo spettatore viene pian piano a conoscenza. L’aspetto che qualifica il film sui grandi matematici è però quello di una condizione di svantaggio che serve a mitigare l’eccezionalità del genio: così l’ostacolo maggiore contro cui essi debbono lottare è la loro stessa personalità. Certo, si tratta di un dato biografico spesso acclarato – è nota la schizofrenia di Nash –, ma il film ne fa un aspetto saliente per contrastare le qualità eccezionali del genio. Il successo che questi ottiene, allora, non è solo il pubblico riconoscimento (il premio Nobel), ma soprattutto la capacità di capire il senso della vita, venendo a patti con la malattia, la disabilità, o comunque con la propria condizione di svantaggio. Così il solitario e asociale John Nash alla fine del film, in occasione della consegna del premio Nobel, pronuncia queste parole: «Ho sempre creduto nei numeri, nelle equazioni e nella logica che conduce al ragionamento. Ma dopo una vita di questi studi, io mi chiedo cos’è veramente la logica, chi decide la ragione. La mia ricerca mi ha spinto attraverso la fisica, la metafisica, l’illusione, e mi ha riportato indietro… e ho fatto la più importante scoperta della carriera la più importante scoperta della mia vita. È soltanto nelle misteriose equazioni dell’amore che si può trovare ogni ragione logica».
Frasi in verità mai pronunciate dal vero Nash, che rimase in silenzio in occasione della premiazione, ma che consegnano (quasi “pedagogicamente”) allo spettatore un’idea chiara del suo percorso di vita.

Si può provare così a estendere l’analisi ad altri film, da La teoria del tutto (di James Marsh, 2014), dedicata al fisico e astrofisico Stephen Hawking, colpito da un’atrofia muscolare progressiva, a Il diritto di contare (di Theodor Theodore Melfi, 2015) nel quale è la condizione di donna e afroamericana di Katherine Johnson, matematica e scienziata che ha dato un contributo fondamentale alle missioni spaziali, a porla in una condizione di emarginazione, fino a L’uomo che vide l’infinito (di Matt Brown, 2015), dedicato al giovane matematico indiano Srinivasa Ramanujan, vittima a Cambridge del razzismo e precocemente colpito dalla tubercolosi, e a The Imitation Game (di Morten Tyldu, 2014), in cui la sorte del matematico Alan Turing è drammaticamente segnata dalla sua omosessualità.
Questi “poveri” geni, che vengono presentati sullo schermo sempre stretti tra difficoltà di vite pesanti, riusciamo a sentirli più vicini a noi. E, forse, anche a riconciliarci con la matematica.