eroi

N.18 Febbraio 2021

SPORT

Due ragazzi sul K2 e il cedro del Libano diventò d’argento

L'impresa di Sbruzzi e Merli, giovanissimi outsider ai Mondiali di canoa del 1975

Qualche settimana prima di quella torrida estate del 1975, Bill Gates e Paul Allen, nel cuore del New Mexico, fondarono la Microsoft. I videogiochi comparvero nelle case degli adolescenti di tutto il mondo il 3 agosto di quell’anno grazie ad Atari: «Noi però giocavamo a calcio e sassate in Via delle Acque, su quel pezzo di strada vicino al naviglio, dove ci siamo conosciuti nel 1969. Eravamo, e siamo, due orgogliosi figli del Po. Io uscivo in barca con mio padre. Danio, con il suo, andava a pescare. Il bagno non lo si faceva in piscina, ma nei fossi o nel grande fiume».
Giorgio Sbruzzi scruta con orgoglio quella barca in cedro del Libano, ancora custodita nell’hangar della Canottieri Baldesio, con la quale nel 1975, insieme a Danio Merli, citando la Treccani «ha compiuto una delle imprese più grandi della storia della canoa italiana, conquistando ai Mondiali di Belgrado del 1975 la medaglia d’argento in K2 sui 10.000 m e il quinto posto sui 1000 m». Passò quasi inosservata nei giorni in cui Oreste Perri mise fine al dominio delle nazionali dell’Est Europa conquistando l’oro nel K1 sulle distanze dei 1000 e dei 10.000 metri: «Eravamo dei ragazzini senza esperienza, affrontammo quel Mondiale senza conoscere il nostro effettivo valore, figuriamoci quello dei nostri avversari».
All’epoca Sbruzzi aveva vent’anni ed era fresco di iscrizione all’Isef. Merli uno in meno ed aveva appena terminato gli studi superiori. La Federazione, allora una costola di quella del canottaggio, decise di portarli a Belgrado affinchè maturassero esperienza. Obiettivo: raggiungere la finale in almeno una delle due discipline.
La preparazione a quell’evento racconta di come allora si intendesse lo sport agonistico: «Andammo in ritiro a Castel Gandolfo, che ospita tra l’altro la residenza estiva del Papa – afferma Sbruzzi – Dormii per tre settimane su di un materasso appoggiato a terra, perché il letto era sfondato. Ricordo come spesso nei pasti dovessimo chiedere un po’ più di pasta. Capitava di uscire e infilarsi in uno di quei bar scavati nella roccia per mangiare un panino con la porchetta. Allora non c’erano medici, fisioterapisti e quant’altro. Per fortuna non ne abbiamo avuto bisogno. Nessuno ci spiegava i concetti di stanchezza e recupero».

I 10.000 metri sono
un condensato di sacrificio,
fatica, resistenza.
E coraggio

Il campo di gara, la splendida cornice del lago artificiale di Savsko Jezero che abbraccia l’isola di Ada Ciganlija ed il fiume Sava, nella periferia di Belgrado: «Tre anni prima – ricorda con lucidità Merli – eravamo all’interno del bar vecchio della Baldesio, incollati al televisore, per seguire la finale delle Olimpiadi di Monaco, nelle quali il K4 di Oreste terminò quarto. Pensai: solo esserci deve essere talmente bello che un giorno vorrei anch’io partecipare ad una competizione internazionale di tale importanza».
I 10.000 metri sono un condensato di sacrificio, fatica, resistenza. E coraggio: «Sapevamo di essere dei signori nessuno. Ricordo la finale dei 1000 in cui l’obiettivo era non arrivare ultimi. Pensammo che se fossimo stati vicini ai Cechi ce l’avremmo fatta. Dopo tre pagaiate erano già dietro…».
Pettorale 202 Merli, 203 Sbruzzi. Il primo velocissimo e prima voga, il secondo più resistente. Un mix perfetto, come ricorda Sbruzzi: «Avevamo una carica pazzesca, dormivamo bene, non sentivamo più di tanto la pressione. C’era anche tanta incoscienza. Di solito nel finale dei 10.000 avevamo la nebbia negli occhi dalla fatica, quella volta no. Mi voltai per capire dove eravamo, non capivo niente. Al traguardo pensavamo di essere arrivati terzi…».

Nella canicola di quel 3 agosto, giorno del battesimo dei videogiochi casalinghi, dietro avevano tenuto i russi Valerie Chemeza e Petras Shupkas, davanti a loro solamente gli ungheresi Zoltán Bakó e István Szabó, dieci medaglie mondiali ed un bronzo alle Olimpiadi di Montreal: «Danio ebbe un collasso nervoso dopo essere sceso dal podio. Realizzammo giorno per giorno la portata di quella medaglia. Ricordo tanti cremonesi a Belgrado, soprattutto da Baldesio e Bissolati, uniti nel tifo e nella festa. Ho ancora negli occhi l’emozione del ritorno, l’accoglienza della Canottieri».
Il K2 a Montreal, l’anno successivo, non riuscì a confermarsi e si fermò solamente in semifinale. Troppo stress, altissime le aspettative. Vinsero ancora qualche titolo italiano, prima di intraprendere altri percorsi. Belgrado rimane un’impresa incastonata nella storia della canoa italiana: è la prima medaglia azzurra in una competizione internazionale nella specialità del K2.