studio
N.60 maggio 2025
Lo studio del silenzio
Lo studio è questo, mi sono detto. Non imparare nuove nozioni, ma disimparare le maschere...

All’inizio pensavo che sarebbero stati i libri a salvarmi. Che le parole, una sull’altra, avrebbero fatto muro contro il silenzio. Poi ho capito che non era il silenzio a temermi, ero io a temere lui.
Mi sono chiuso in questa biblioteca abbandonata trentuno giorni fa. Una biblioteca, sì, non un eremo, non un rifugio di montagna. Un luogo di polvere e di ricordi, di legno scricchiolante e di finestre velate di anni. La luce filtra come può, radente, disegnando arabeschi sul pavimento, mentre le ombre si allungano, si assottigliano, si disfano. Qui, ogni cosa è rimasta immobile nel tempo, come se l’abbandono fosse stato un atto di delicatezza, non di negligenza.
I primi giorni ho camminato tra gli scaffali con la cautela di chi entra in una cattedrale sconsacrata. Sussurravo senza accorgermene, come se ogni parola potesse incrinare l’equilibrio instabile del luogo. Toccare i libri era un atto intimo: le dita scorrevano lungo le coste, tracciavano curve sulle copertine scrostate, accarezzavano margini sgualciti. Era come sfiorare la pelle di un amante addormentato.
Le ore scivolavano via. Le giornate si srotolavano lente come pergamene antiche. Il silenzio, all’inizio, era un balsamo: un luogo dove riposare, dove lasciare che il mondo smettesse di bussare alle tempie. Ma il silenzio ha pazienza. Non chiede, non reclama: aspetta. E mentre aspetta, entra.
Il silenzio, all’inizio, era un balsamo: un luogo dove riposare, dove lasciare che il mondo smettesse di bussare alle tempie. Ma il silenzio ha pazienza. Non chiede, non reclama: aspetta. E mentre aspetta, entra.
Le prime crepe sono arrivate di notte. Sdraiato su un materasso improvvisato, sotto una finestra che fingeva di proteggermi dalla luna, ho cominciato a sentire. I rumori del corpo: il battito incerto, il respiro che sembrava moltiplicarsi, il sangue che pulsava nelle tempie. Poi, più in profondità, il rumore dei pensieri: i ricordi che salivano a galla, le voci sopite, le parole mai dette.
C’era mia madre, con le mani screpolate, piegata sulla tavola di legno a preparare il pane. C’era mio padre, che entrava in casa con l’odore del fumo e del freddo, e mi poggiava una mano sul capo come si fa con i cani. C’era quella ragazza con gli occhi che ridevano e i silenzi che facevano male, e c’era il mio io più giovane, che correva a perdifiato tra le vigne, inseguito da un vento che sapeva di terra e futuro.
Il silenzio è uno specchio senza misericordia. Ti rimanda tutto indietro: le parole che hai scagliato, i silenzi che hai usato come armi, i passi non fatti, le carezze trattenute. Mi sono visto. E non sempre mi è piaciuto.
Ho aperto un libro, una notte. Non per leggere, ma per ascoltare. Tra le righe, ho trovato annotazioni di un altro viandante del sapere, forse un giovane, forse un vecchio: “Non fuggire da ciò che sei.” Quelle parole hanno vibrato come corde pizzicate nell’aria ferma. Le ho lette ad alta voce. La mia voce, sola nella biblioteca, è sembrata un animale smarrito.
Lo studio è questo, mi sono detto. Non imparare nuove nozioni, ma disimparare le maschere. Non aggiungere, ma togliere.
Il silenzio è uno specchio senza misericordia. Ti rimanda tutto indietro: le parole che hai scagliato, i silenzi che hai usato come armi, i passi non fatti, le carezze trattenute. Mi sono visto. E non sempre mi è piaciuto.
Col passare dei giorni, il luogo ha cominciato a parlarmi. La polvere danzava nell’aria come pensieri vaganti. Le assi del pavimento gemevano sotto il mio peso come vecchi amici che si lamentano del tempo. I libri non erano più oggetti, ma presenze. Alcuni si piegavano verso di me, altri sembravano respingermi. C’era un ordine segreto, una trama invisibile che collegava tutto.
Fuori, la natura avanzava lenta. I rampicanti abbracciavano le finestre, le foglie si infiltravano tra le fessure, piccoli insetti giocavano a invadere il regno del sapere. Il sole e la pioggia si alternavano senza fretta, lavando e accarezzando la pietra. Ogni tramonto era una pennellata nuova sul cielo, ogni alba un balsamo sulle mie ferite invisibili.
Il mio corpo ha cominciato a cambiare. Ho perso peso, ho perso tempo. Ho imparato a sentire la fame come un messaggero, non come un nemico. Ho imparato a distinguere il battito del mio cuore dal fruscio delle pagine, il cigolio del legno dal sussurro del vento. Ho imparato che anche il silenzio ha una voce, e che spesso ci parla più di quanto facciano le parole.
Una notte ho pianto. Non di dolore, non di tristezza. Di resa. Ho capito che il silenzio non si conquista, si accoglie. Non si studia, si abita. Ed è stato allora che la biblioteca mi ha sussurrato la sua ultima lezione: siamo tutti biblioteche abbandonate. Ognuno di noi custodisce scaffali di storie mai raccontate, pagine strappate, margini annotati da mani che non ricordiamo più. Siamo archivi di amori, di paure, di gesti dimenticati. E il silenzio è l’unico che sappia leggerci davvero.
Ora, al trentunesimo giorno, mi preparo a lasciare questo luogo. La finestra mi restituisce il riflesso di un uomo che conosce un poco meglio i propri limiti. La città laggiù si accende di luci e di promesse. So che tornerò. Ma non sarò lo stesso.
Perché ho imparato che lo studio non è solo un atto di aggiunta, ma di sottrazione. Non è solo sapere di più, ma sentire di meno ciò che ci pesa addosso. È il coraggio di togliersi di dosso i mantelli, uno a uno, fino a restare nudi davanti a sé stessi.
Forse non ho studiato il silenzio. Forse è stato lui a studiare me.