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N.58 aprile 2025
Ragazzi dietro le sbarre, don Burgio: «Camminare con loro per cambiare il nostro sguardo»
Il sacerdote, cappellano del Beccaria di Milano e fondatore della associazione Kairos è stato ospite alla parrocchia del Maristella: «Immergermi nella realtà, nella loro realtà, è stato per me la migliore palestra di vita»

Ascoltare Don Claudio Burgio non è obbligatorio. Come leggere questo articolo. Ma, se decidiamo di farlo, apriamo il cuore e non solo le orecchie.
«Il carcere per i minorenni non serve a molto; in particolare nel momento in cui, come accade a Milano, c’è un problema di sovraffollamento. Al Beccaria, dove sono cappellano, ho visto con i miei occhi ragazzini di 14 anni dormire per terra, su materassi di gomma piuma, in mezzo alla sporcizia».
Don Claudio, davanti alla folla venuta ad ascoltarlo presso la Chiesa del Maristella, non vuole andare alla caccia dei colpevoli, ma semplicemente sottolineare l’enorme difficoltà in cui si trova il sistema carcerario. Date le premesse, il sacerdote si chiede se ci siano le condizioni affinché si realizzi l’articolo 27 della Costituzione secondo cui “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. A questo proposito sottolinea che «il carcere per gli adulti, come testimonia l’altissima recidiva in Italia, è ancora peggio di quello per i minorenni».
Qualcosa evidentemente non funziona, ma allora, come possiamo muoverci? «Come società non abbiamo inventato molto altro rispetto alle sbarre per contenere e per diffondere un’idea di sicurezza. Dobbiamo però avere la consapevolezza che il carcere è un dispositivo totalitario, chiuso, estremamente violento».
«Come società non abbiamo inventato molto altro rispetto alle sbarre per contenere e per diffondere un’idea di sicurezza. Dobbiamo però avere la consapevolezza che il carcere è un dispositivo totalitario, chiuso, estremamente violento»
«Un giorno ero con un ragazzo che stava guardando fuori dalla finestra della cella», racconta Don Claudio. «Giungeva la sera e un tramonto bellissimo colorava il cielo. Gli ho chiesto, ingenuamente, cosa vedi? E lui mi ha risposto, senza pensarci un attimo, delle sbarre. Perché le sbarre non sono solo fisiche ma, soprattutto, interiori: impediscono ai ragazzi di guardare oltre, di sperare».
La pandemia ha intensificato questa sensazione di chiusura, di intima sofferenza che trova modi diversi di esprimersi, alle volte in modo violento, improvviso e inspiegabile. Le sbarre interiori sono quelle di Riccardo, diciottenne di Paderno Dugnano che ha ucciso la propria famiglia e che, a colloquio con il sacerdote, ammette di non riuscire a trovare una motivazione a quel gesto terribile.
«I ragazzi sbagliano, certo», afferma, senza fare sconti, Don Claudio. «Ma è tutta colpa loro?». Ancora una volta non è alla ricerca di colpevoli, ma si domanda in che modo, come adulti, «possiamo far respirare ai ragazzi la speranza e aiutarli ad uscire dalle loro inquietudini». Sulla testimonianza dei valori non ce la caviamo molto bene a giudicare dalle parole di un adolescente che, interrogato dal sacerdote, afferma di vedere gli adulti come «delle scatole vuote». Allora cosa dobbiamo fare?
«Mettiamoci in cammino con loro», esorta fiducioso. «La speranza è qualcosa di concreto, non accade magicamente. Gli adulti devono imparare a camminare con i giovani. Per me è stato fondamentale entrare nelle celle e farmi raccontare dai ragazzi i loro punti di vista, i loro sogni, le loro passioni; questo mi ha permesso di cambiare il mio sguardo».
«La speranza è qualcosa di concreto, non accade magicamente. Gli adulti devono imparare a camminare con i giovani»
Per aiutarci a capire, il sacerdote racconta la storia di Zakaria. «L’ho incontrato al Beccaria; era diffidente, non parlava con nessuno, men che meno con gli adulti. Mi sono limitato a stargli accanto e, finalmente dopo un anno e mezzo, mi ha chiesto di entrare a Kayros, la mia comunità. Va bene, gli ho risposto, ma quale programma educativo presentiamo al giudice?». Il ragazzo risponde che, nella vita, farà il cantante. Don Claudio gli suggerisce, cercando di farlo ragionare, di pensare anche a un “piano B”, che appaia più realistico agli occhi dell’autorità giudiziaria. «Io farò il cantante», ribadisce. «È fondamentale che un ragazzo sia mosso da una speranza, da un sogno», spiega il sacerdote. «Potrà anche fallire, ma almeno si è mosso! Magari non farà davvero il cantante, ma io sto al gioco, lo incoraggio». Così, poco tempo dopo, si presenta da Zakaria con un quaderno per appuntare le sue canzoni e con l’autorizzazione del giudice per entrare in comunità. Il ragazzo comincia a scrivere, don Claudio lo affianca e lo accompagna negli studi di registrazione.

«A dicembre dell’anno scorso, davanti alle 15.000 persone del Forum di Assago, mi è venuto in mente il “piano B” perché oggi Zakaria è un rapper famoso, non solo in Italia ma anche a livello internazionale. I suoi testi sono fonte di inquietudine per gli adulti e le istituzioni, ma sono la testimonianza di un percorso faticoso che, alla fine, l’ha portato a realizzare il proprio sogno».
Grazie alla conoscenza di ragazzi come Zakaria, in arte Baby Gang, don Claudio è entrato nelle loro case, nei cortili Aler, nelle cantine «a due passi da San Siro dove ero stato tante volte, ignaro che a poche centinaia di metri da me avrei trovato bambini che rovistavano nella spazzatura. Situazioni come queste ti fanno cambiare lo sguardo, ti fanno capire che devi metterti in ascolto dei ragazzi, senza giustificarli per i reati che commettono ma anche senza emettere, immediatamente, un giudizio di condanna. Immergersi nella realtà, nella loro realtà, è stato per me la migliore palestra di vita».
Rispetto alla musica trap, facile capro espiatorio, don Claudio esorta a cambiare punto di vista: «Dobbiamo chiederci come mai questi rapper hanno vissuto esistenze così tormentate. Perché quando erano bambini sono stati a contatto con situazioni piene di violenza? Perché hanno visto armi e droga in una età in cui avrebbero dovuto solo pensare a giocare? Dov’era la scuola? Noi, dove eravamo? I loro testi ci infastidiscono perché ci sbattono in faccia il fatto che in Italia ci sono sempre maggiori disuguaglianze. Ci descrivono una realtà scomoda che dobbiamo avere il coraggio di affrontare».
«Non si può sempre chiedere ai ragazzi di pazientare in attesa di qualcosa: la cittadinanza, il lavoro, una casa»
E quando dobbiamo muoverci, quando iniziare il cammino? «Il kairos, “il momento giusto e opportuno”, che ha dato il nome alla mia comunità, è l’oggi. Il cardinal Martini, che mi ha ordinato sacerdote, diceva che educare è seminare e sperare di raccogliere in futuro. Certo, si può sbagliare nell’educazione, ma bisogna osare e bisogna farlo subito; non si può sempre chiedere ai ragazzi di pazientare in attesa di qualcosa: la cittadinanza, il lavoro, una casa»,
A chiusura dell’incontro di cui queste righe restituiscono solo alcuni frammenti, un genitore chiede come si possa trovare la forza per affrontare, ogni giorno, la sfida educativa. «Quando non ce la faccio più – confessa Don Claudio – mi fermo e mi chiedo con quali occhi Dio sta guardando in questo momento, quel determinato ragazzo. Se mi fermo al mio sguardo, per forza di cose limitato, dopo un po’ rischio di darmi per vinto».